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lunedì 30 dicembre 2013

Il Meglio e Il Peggio del 2013

La fine dell'anno è per antonomasia tempo di bilanci, quindi andiamo a vedere quali sono stati i dieci dischi migliori di questo 2013 che sta finendo e diamo un'occhiata anche ai tre che hanno deluso di più.

1 David Bowie – The Next Day
    Il Duca Bianco ritorna sulle scene dopo oltre dieci anni e lo fa nel migliore dei modi. Riesce a mescolare alla perfezione il suo passato con il presente e il risultato è il miglior album del 2013
2 Daft Punk – Random Access Memories
    Era uno dei dischi più attesi del 2013 e non ha deluso le aspettative. Il duo parigino tira fuori il coniglio dal cilindro creando un disco che resterà nella storia.

3 Queens Of The Stone Age - ...Like Clockwork
    Il sesto disco in studio per la band californiana segna una sorta di svolta a livello musicale, anche rischiosa, ma che porta a un disco ottimo che sta riscuotendo enorme successo anche dal vivo.

4 I Cani - Glamour
    Il secondo lavoro della band romana va a confermare quanto di buono si era già detto di loro dopo l'esordio di due anni fa. Ma quello che colpisce di più la maturazione a livello artistico che si può notare a soli due anni di distanza e che lascia ben sperare per il futuro.

5 Arcane Roots – Blood And Chemistry
    Debutto per la band inglese che regalano un disco di una qualità notevole. E il fatto che si tratti di un debutto lascia una notevole voglia di sentire al più presto altri lavori dei tre londinesi.

6 Laura Marling – Once I Was An Eagle
    Il disco della maturità per la cantautrice inglese. Un disco che è una sorta di discesa e risalita, che mette in mostra tutte le doti della Marling, sia come cantante sia come musicista.

7 Appino – Il Testamento
    Primo disco da solista per il leader degli Zen Circus, che lo porta anche alla vittoria della Targa Tenco come miglior opera prima. Uno dei migliori dischi italiani dell'anno, che ci ha intrattenuto in attesa del nuovo disco degli Zen previsto per Gennaio 2014.

8 Il Muro Del Canto – Ancora Ridi
    La band romana con il secondo lavoro si conferma una delle migliori del panorama della musica folk-popolare italiano. Un disco che rispetta tutte le aspettative che c'erano dopo il primo lavoro del 2012.

    Eddie Vedder e compagni tornano con un disco che di primo acchito non sarebbe mai stato tra i migliori dell'anno. Ma a forza di ascoltarlo si nota una forza e una profondità che lo rendono uno dei lavori migliori della band di Seattle.

10 Sting – The Last Ship
    L'ex frontman dei Police torna anche lui dopo dieci anni dall'ultimo lavoro e ci propone quella che sarà la colonna sonora di un musical. Un disco che va ascoltato più volte per apprezzarlo appieno ma che una volta compreso non riuscirà più a uscire dal cuore.
E ora passiamo al peggio dell'anno che si sta chiudendo.



1 30 Seconds To Mars - Love Lust Faith + Dreams
    Uno dei dischi più attesi dell'anno ed anche il più deludente. Il cambio di rotta per Jared Leto e soci porta a un disco molto orecchiabile ma senza un vero senso di fondo.

2 Editors – The Weight Of Your Love
    Dopo due dischi molto apprezzati arriva questo nuovo album che fa fare più di un passo indietro alla band inglese. Un disco piatto e monotono che suona come una brutta copia di troppe altre band.

    La delusione c'è fino a un certo punto sentendo gli ultimi lavori del cantante di Correggio. Le vendite continuano a volare ma la qualità scarseggia per l'ennesimo disco uguale al precendente

lunedì 23 dicembre 2013

Recensione AC/DC - Back In Black

Il 1980 è stato l'anno di svolta per gli AC/DC. L'anno precedente era arrivato il primo accenno di successo a livello planetario grazie a Highway To Hell, ma è l'inizio degli anni '80 che portarono la band australiana alla ribalta mondiale.

Nel febbraio del 1980 il frontman della band, Bon Scott, morì improvvisamente a seguito di una nottata di eccessi. A seguito di questo evento in molti pensavano a una probabile fine per la band australiana, che invece dopo poco si mise subito alla ricerca di un sostituto alla voce. La scelta andò a cadere su Brian Johnson, un semi sconosciuto cantante inglese. La band si chiuse subito in studio per dare un seguito a Highway To Hell, ma soprattutto le sedute di registrazione del nuovo album furono fondamentali per superare lo shock della perdita di Bon Scott.
Fin dalla copertina di Back In Black si capisce come l'evento funesto abbia influenzato tutto il nuovo album, una copertina totalmente nera in segno di lutto per l'amico scomparso. Anche l'apertura del disco è in onore di Bon Scott, con le campane che suonano a morto e ci introducono ad Hells Bells.
Lo stile è quello che ormai da anni la band dei fratelli Young aveva intrapreso, un rock and roll nudo e crudo, suonato veloce e potente che nasce dal blues ma che si evolve a creare un tipo di hard rock diverso da quello più classico di Led Zeppelin o Deep Purple.
Back In Black è un disco in cui sono racchiusi alcuni dei più importanti brani della carriera degli AC/DC. Hells Bells, Shoot To Trill, Back In Black ma soprattuto You Shook Me All Night Long garantirono all'album un successo incredibile, portandolo ad oggi a essere il secondo disco più venduto di sempre con oltre 50 milioni di copie vendute.



Un disco che porta un gruppo dal successo alla storia, un disco che è quasi una seduta di analisi per superare un trauma e che li fa uscire più forti di prima, uno di quei pezzi di storia che anche se li conosci a memoria non puoi fare a meno di riascoltare. 

domenica 15 dicembre 2013

La Meglio Gioventù - Colonna Sonora

Quando un film ripercorre quarant'anni di storia, anni che attraversano tutta la nostra storia recente, ci sarebbe da pescare a piene mani nella discografia italiana o straniera di questi anni, per aiutarti a raccontare questo periodo. Marco Tullio Giordana preferisce invece compiere una scelta diversa per la colonna sonora di La Meglio Gioventù. Decide di non ricorrere alla musica come fonte principale per raccontare la sua storia, ma lascia parlare i personaggi, per lasciare alla musica di andare ad accompagnare le scene più intense del film.
Eppure dai titoli di testa si parte con una House Of Rising Sun che ci introduce al 1966 dove ha inizio la storia. Ma se si escludono un paio di altri brani (Creedence Clearwater e Fats Domino) le scelte del regista sono in netta controtendenza rispetto alla storia narrata, fatta eccezione per Who Wants To Live Forever che ci introduce negli anni '80 utilizzando la band simbolo di quel decennio. Una delle scene iniziali che colpisce di più è quella del bar in cui Matteo e Giorgia nel loro rapporto fatto di sguardi e poche parole trovano l'intesa che cercavano davanti a un jukebox in cui lei scegli di ascoltare A Chi di Fausto Leali.


Sarebbe stato molto più semplice prendere a prestito i brani che hanno accompagnato quel periodo storico visti anche i temi trattati, '68 su tutti, con migliaia di canzoni adatte a raccontare quel tempo. Invece Giordana scegli una via diversa per le musiche. Mette in risalto le contrapposizioni che si presentano nel film, accentuandole con le scelte musicali. Di primo acchito sembrerebbero stonare rispetto alle immagini che vediamo, ma la scelta alla lunga risulta essere azzeccatissima.
Basti pensare alle scene che vedono Nicola attraversare la Norvegia nel viaggio della giovinezza, scene in cui il protagonista racconta di come non si era mai sentito così vivo e libero come in quei giorni ma che vengono accompagnate da due brani sofferti e malinconici, Time After Time e I'm through with love con la voce di Dinah Washington che restituisce un senso di poca armonia rispetto a quello che vediamo sullo schermo.


è la musica classica a farla da padrone per larga parte del film, visto che lega a doppio filo la storia tra Nicola e Giulia. Ci troviamo di fronte a brani di Ravel, Mozart, Bach e Britten che vanno sempre a collegarsi alla storia tra i due.
Ma dicevamo che è il contrasto tra musica e immagini quello che spicca nelle scene principali. È la madre di tutte le scene per far capire questa cosa, è forse la scena più drammatica del film, quella del suicidio di Matteo. Siamo nella notte di Capodanno e alla solitudine e alla disperazione del poliziotto viene contrapposta una musica allegra e festante, che come detto all'inizio può sembrare fuori luogo ma che invece da una forza drammatica ancor più forte alla scena.
Per un film meraviglioso non poteva che esserci una colonna sonora degna, ma la scelta vincente è che non invade mai la scena, ma ha il compito di dare una spinta in più a delle immagini già perfette anche senza musica.

Per saperne di più per quel che riguarda il film vi consiglio di leggere il post di Fotogrammi di Zucchero a questo link : La Meglio Gioventù 

giovedì 12 dicembre 2013

Recensione Bruce Springsteen - Born To Run

Ho visto il futuro del rock'n'roll e il suo nome è Bruce Springsteen” – Jon Landau, Maggio 1974

Le parole di Landau potevano sembrare esagerate se si analizza il periodo in cui furono dette. Springsteen era un giovane musicista con alle spalle già due album, che non avevano riscosso alcun successo commerciale, ma le sue esibizioni dal vivo erano già molto conosciute nella costa Est degli Stati Uniti. Ma nel 1975 arrivò il terzo disco di Bruce, e le parole di Landau divennero quasi una profezia. Born To Run segnava la svolta per il cantante del New Jersey. Accompagnato dalla fidata E-Street Band, il disco regala otto brani di un'intensità memorabile, soprattutto dal lato emotivo.
Già dall'attacco di Thunder Road con la voce del Boss che si intreccia con il piano si può iniziare a capire che ci si trova davanti a qualcosa di completamente diverso rispetto ai precedenti lavori di Springsteen. Le chitarre hanno un ruolo sempre più determinante, ma a fare la differenza ( come per i successivi 30 e più anni ) sarà il sax di Clarence Clemons capace di far uscire un suono quasi magico.



Bruce Springsteen più che un cantautore è sempre stato un cantastorie. Ha sempre raccontato le storie un'America spesso dimenticata, quella degli operai e dei proletari. Le storie della parte più umile della società, la stessa da cui lui proviene, andando sempre a rinnegare quel sogno americano tanto decantato dalla cultura statunitense. E non fa eccezione questo lavoro, in cui il Boss va a raccontare storie di reietti, costretti a lottare ogni giorno per sopravvivere. E lo fa con la sua voce roca che da sempre è stata il suo marchio di fabbrica.



Born To Run è solamente il primo grande capitolo di una storia ormai quarantennale, la prima vera pietra miliare di un'artista che con i dischi successivi ce ne regalerà ancora altre e che ancora oggi non smette di dare tutto se stesso per i suoi fans, sia dal vivo che in studio. Ma è da qui che tutto è partito e da qui che si iniziano a comprendere fino in fondo le parole che Landau spese nel 1974. 

mercoledì 11 dicembre 2013

Recensione Nirvana - Nevermind

Nel 1991 la scena di Seattle stava per esplodere in tutto il suo fragore. Alla fine di Agosto era uscito Ten dei Pearl Jam, mentra alla fine di Settembre arriva nei negozi di dischi il secondo album dei Nirvana, Nevermind.
Il disco era il seguito di Bleach il primo disco autoprodotto dalla stessa band e che aveva già riscosso un notevole successo sia di pubblico che di critica, il che aveva iniziato a garantire a Cobain e soci un buon seguito di fans, soprattutto nell'area di Seattle. 

I brani proposti nell'album erano per la maggior parte già conosciuti dai fans della band di Seattle, visto che venivano già proposti da tempo dal vivo. Ma la spinta maggiore dell'album arriva dal brano di apertura e primo singolo Smell Like Teen Spirit, che anche grazie alla spinta del videoclip passato a ripetizione su MTV, portarono Nevermind ai primi posti in classifica fin da subito.
Il sound della band di Kurt Cobain non era dei più complessi. Melodia orecchiabili unite alla violenza, soprattutto vocale, del punk. Un esperimento che già anni prima i Pixies avevano provato a proporre, ma non con gli stessi risultati dei Nirvana. Anche la struttura dei brani è abbastanza classica, con il semplice schema strofa-ritornello-strofa. Ma la semplicità della musica è sicuramente stata la forza della band. Canzoni dirette che arrivano dirette all'ascoltatore, che giungono proprio nel periodo giusto. Brani come la già citata Smell Like Teen Spirit oppure Lithium, In Bloom e Drain You diventano dei veri e propri inni di una generazione che cercava una guida musicale. E i Nirvana vengono subito eletti a portavoce di una generazione, ruolo che li porterà alla rovina, soprattutto a Kurt Cobain.


Nevermind rappresenta uno dei dischi più importanti degli anni '90, ma anche della musica in generale. Uno dei dischi senza i quali molte delle band che ascoltiamo a tutt'oggi non sarebbero mai esistite, e soprattutto vista la sua semplicità un disco che ha avvicinato alla musica un numero immenso di giovani musicisti. 


sabato 7 dicembre 2013

Recesione Giuda - Let's Do It Again

Accade ogni tanto che una band sfugga all'attenzione del proprio paese, per trovare il successo dall'altra parte del mondo. Questo è il caso dei romani Giuda, passati quasi inosservati nel nostro paese, ma che stanno ottenendo un ottimo riscontro sia in Europa sia negli Stati Uniti. E così eccoli arrivare con il nuovo album Let's Do It Again a distanza di due anni dall'esordio.


La strada è la stessa tracciata dal primo lavoro della band, un disco che sembra uscire direttamente dai primi anni '70, dalla Londra del Glam, e il gruppo non nega che è proprio quella la loro ispirazione. Un po' Glam, un po' Rock 'n Roll, un po' Punk, i Giuda riescono a miscelare il tutto alla perfezione, creando uno stile tutto loro, fatto di brani brevi e veloci, che non tendono mai ad annoiare chi ascolta. 



Una ventata di aria fresca per il panorama musicale italiano, un gruppo che ha la dimensione internazionale che spesso manca alle band nostrane. E per i Giuda il successo è già arrivato in attesa che il grande pubblico si renda conto di loro anche in Italia. 

mercoledì 4 dicembre 2013

Recensione David Bowie - The Rise And Fall Of Ziggy Stardust And The Spiders From Mars

Nel 1972 il Glam Rock stava entrando nel suo periodo di massimo splendore. Gli ideali degli Hippie avevano lasciato il posto a una nuova moda, in cui l'apparenza era il tutto, lasciando totalmente da parte gli ideali con Londra al centro di questo nuovo movimento.
Un giovane David Bowie, salito alla ribalta con Space Oddity e che aveva iniziato a trovare la sua via artistica con Hunky Dory, trova in questo periodo storico il momento adatto per cercare di spiccare il volo.
Ma in un mondo fatto di finzione e apparenza Bowie capisce che bisogna creare un alter ego che possa mettere in scena tutta la sua arte. Ed è così che nasce Ziggy Stardust, un alieno dalle fattezze androgine, che viene catapultato sulla terra per diventare la più grande Rockstar al mondo. È questa la storia che mette in scena Bowie in questo album, l'ascesa e la caduta di Ziggy nel mondo della musica.
Il disco si apre con una profezia che annuncia che il mondo finirà nel giro di cinque anni ( Five Years ) ed ecco apparire un uomo delle stelle ( Starman ) che farà di tutto pur di diventare la stella più luminosa nel mondo della musica. Il tutto fino alla caduta finale, quella Rock 'n' Roll Suicide che nella sua teatralità porterà lo stesso Bowie a portare in scena la morte di Ziggy sul palco.
Il disco procede tra ballate e pezzi più tesi con suoni che si avvicinano a quel punk che ancora deve esplodere, il tutto accompagnato da quella teatralità che renderanno la messa in scena da vivo di questo disco una delle migliori della storia del rock. 


Il disco che ha lanciato in orbita definitivamente sia il Glam che David Bowie. Una pietra miliare nella storia della musica che ha influenzato generazioni intere di musicisti, ma non solo. Il disco che ha reso immortale David Bowie, che lo ha fatto conoscere al mondo come grande innovatore, qualità che negli anni a venire sarà sempre più confermata.

Tracklist :


  1. Five Years
  2. Soul Love
  3. Moonage Daydream
  4. Starman
  5. It Ain't Easy
  6. Lady Stardust
  7. Star
  8. Hang On To Yourself
  9. Ziggy Stardust
  10. Suffragette City
  11. Rock 'n' Roll Suicide

domenica 1 dicembre 2013

Recensione Fabrizio De André - Storia Di Un Impiegato

I dischi di Fabrizio De André hanno sempre avuto un filo conduttore che legava ogni singolo brano a creare un unica grande storia. Il punto massimo sotto questo punto di vista lo raggiunge nel 1973 con Storia Di Un Impiegato. Il '68 rivisto a cinque anni di distanza, messo in musica con gli occhi di un impiegato trentenne che vuole fare la sua parte nella rivolta studentesca.
Con l'ascolto di un canto del maggio francese ( Canzone Del Maggio ) l'impiegato prende coscienza della giustezza delle idee dei rivoltosi, e a seguito di un viaggio onirico che lo rende consapevole delle sue possibilità ( Al Ballo Mascherato, Sogno Numero Due ) decide di passare dalla teoria alla pratica, mettendo in atto un vero e proprio attentato ( Il Bombarolo ) che però non lo porterà ad altro che all'arresto e al continuare la sua rivolta proprio all'interno del carcere ( Nella Mia Ora Di Libertà ).
Questo sesto disco in studio del cantautore genovese segna la prima presa di posizione politica, cosa non voluta come dichiarato dallo stesso De André, ma se non altro trasmette con forza un messaggio fondamentale, e lo fa con l'avanzare della storia, in cui l'impiegato proprio nel finale capisce che la sua individualità non basta, ma c'è bisogno della collettività per cambiare veramente le cose.



Uno dei dischi più criticati di De André, ma che nel corso degli anni ha saputo meritarsi la stima che gli è consona. Pezzi memorabili come Il Bombarolo e Verranno A Chiederti Del Nostro Amore resteranno per anni nel repertorio dal vivo di Faber, e che rendono questo disco uno dei punti più alti della sua composizione.

venerdì 29 novembre 2013

Recensione Ligabue - Mondovisione

Decimo album in studio per il cantante di Correggio, tre anni dopo Arrivederci, Mostro! Che aveva avuto ottimi riscontri sia a livello di vendite che di critica. Mondovisione è stato anticipato dai due singoli Il Sale Della Terra e Tu Sei Lei.


Ligabue è ormai prossimo ai venticinque anni di carriera, e tutti questi anni sulla scena iniziano ad avere il loro peso. In Mondovisione è un'artista molto diverso da quello a cui eravamo abituati. In questo disco probabilmente manca l'energia che da sempre contraddistingue il cantante emiliano, per lasciar posto a momenti molto più riflessivi e intimi. Le chitarre iniziano a diminuire per lasciare sempre più spazio al piano, il che già come sonorità segna un passaggio a vie più delicate, forse anche sintomo di una stanchezza e una minor voglia di comporre cose nuove.


Mondovisione è uno dei dischi più difficili da ascoltare tra quelli del cantautore di Correggio. Se si è in cerca del singolo da Hit Parade, quasi sicuramente si farà difficoltà a trovarlo, così come sarà difficile trovare pezzi orecchiabili e di facile ascolto. È anche difficile trovare qualcosa che non sia stato già sentito nei precedenti lavori del Liga, ma questo ai fans non interesserà minimamente. Si procede tra ballate e pezzi più movimentati, tra cui come detto sono pochi i momenti che spiccano. L'unica nota di merito va sicuramente data a La Terra Trema, Amore Mio delicata dedica alla sua Emilia devastata dal terremoto lo scorso anno.


Un disco di difficile ascolto, in cui si può notare una certa stanchezza da parte di Ligabue, ma che non scoraggerà i fan ad acquistare il disco solo per il nome riportato in grassetto sulla copertina. Un disco che dovrebbe far riflettere per il futuro, dove piuttosto che pubblicare per rispettare dei tempi discografici, si potrebbe provare a proporre qualche idea nuova, piuttosto che continuare a ripetere la stessa cosa per anni e anni.


Tracklist :
1 Il muro del suono
2
Siamo chi siamo
3 Il volume delle tue bugie
4 La neve se ne frega
5 Il sale della terra
6 Tu sei lei
7 Nati per vivere (adesso e qui)
8
La terra trema, amore mio
9 Per sempre
10 Ciò che rimane di noi
11 Con la scusa del r’n'r
12 Sono sempre i sogni a dare forma al mondo

lunedì 25 novembre 2013

Recensione The Beach Boys - Pet Sounds

A inizio anni '60 la California era diventata famosa per il suo stile liberale e per la voglia di divertirsi dei suoi cittadini. L'espressione massima di questo spirito fu il movimento Surf, che partendo dalle spiaggie iniziò a invadere tutti i giovani californiani. Tra loro spiccarono una band che fece del Surf il proprio stile di vita. I Beach Boys iniziarono presto a scalare le classifiche e a sfidare addirittura i Beatles per la testa delle hit parade.
Ma a cavallo tra il 1965 e il 1966 cambiò tutto. Il leader dei Beach Boys Brian Wilson abbandonò l'attività live, sia per paura di esibirsi che per l'insorgere di primi avvisi di instabilità mentale. Si iniziò a dedicare principalmente alla composizione in studio. E l'uscita di Rubber Soul dei Beatles cambiò radicalmente la concezione musicale di Wilson.
Wilson decide di cambiare completamente la struttura musicale fino a quel momento seguita dai ragazzi californiani, andando a comporre qualcosa di totalmente diverso. Addio a quel pop frivolo che aveva segnato la loro carriera fino a quel momento, ed ecco arrivare armonie vocali e musicali fino a quel punto sconosciute ai Beach Boys. Nonostante la contrarietà del resto della band che sarebbe voluta restare su binari più consoni al loro passato.
Ma il risultato è uno di quei pochi dischi che si possono definire come capolavoro. Quattordici brani da ascoltare quasi all'infinito, senza mai una caduta in basso, e una dimostrazione totale di come andrebbe trattata la musica pop. D'accordo la musica leggera, ma può essere anche di grande spessore, come in questo caso. Pop che si avvicina alla psichedelia e al rock, senza mai lasciare però la strada maestra. E un intreccio di voci e musica che si accorpano l'un con l'altro quasi a creare una sorta di magia sonora, da cui è difficile staccarsi.



Uno dei dischi fondamentali nella storia della musica, uno che se non si è mai ascoltato bisognerebbe subito porre rimedio. Se nel 1966 qualcuno ha anche solo dubitato che esistesse una band migliore dei Beatles, la colpa è di questo album. 

sabato 23 novembre 2013

Recensione Black Sabbath - Black Sabbath Album

Già la copertina evoca brutti presagi. Questa figura nera in mezzo a una tranquilla campagna inglese, una sorta di strega pronta per un Sabba, sembra portarci già all'interno del disco. E le campane che fanno da intro al primo brano non fanno altro che calarci ancor più dentro un mondo fatto di paura e terrore.
Paura e terrore che fanno capolino appena comincia il disco, con delle campane che ci accolgono in un percorso di inquietudine che viene rispecchiata dal suono della band inglese. I quattro ragazzi di Birmingham nascono anche loro dal Blues, ma creano un qualcosa di ancora sconosciuto all'epoca, che poi nel corso degli anni sarà ribattezzato Heavy Metal. Un suono duro, potente e cupo guidato dalla chitarra di Tony Iommi, che accoppiato alla voce di Ozzy Osbourne, che sembra venire direttamente da un altro mondo, vanno a sconvolgere per sempre la musica come la si era concepita fino a quel punto.
Ovviamente essendo un disco di debutto parecchie sono le cose buone, così come nel tempo avranno modo di sistemarne altre, ma pezzi come Black Sabbath, Wicked World e N.I.B. Furono dei pezzi che fin da subito fecero capire la pasta di questi quattro ragazzi.


Sicuramente non il miglior disco della band inglese, che con il tempo hanno saputo fare molto di meglio, ma comunque uno dei dischi più importanti della storia per l'influenza che ha avuto sulle future generazioni di musicisti, considerando anche il fatto che lo troviamo alla base della nascita di numerosi sottogeneri musicali, soprattutto Metal.

Tracklist :
  1. Black Sabbath
  2. The Wizard
  3. Behind The Wall Of Sleep
  4. N.I.B.
  5. Evil Woman
  6. Sleeping Village
  7. The Warning
  8. Wicked World

mercoledì 20 novembre 2013

Recensione Led Zeppelin - Led Zeppelin I

Jimmy Page l'unico superstite dei quasi defunti Yardbirds, decise di mettere in piedi una propria band per portare a termine il tour che la band inglese aveva in programma, per poi ribattezzare la band Led Zeppelin, sembra su suggerimento di Keith Moon degli Who.
Nel 1969 vede la luce il primo album in studio con Page alla chitarra, Robert Plant alla voce, John Paul Jones al basso e tastiere e John Bohnam alla batteria. Il repertorio della band era per la maggior parte composto da pezzi degli Yardbirds e vecchi blues, il tutto rielaborato dalla sapiente mente di Jimmy Page.
Già dall'attacco di Good Times, Bad Times si inizia a capire che strada prenderà il disco, radici affondate nel Blues con una spinta però completamente diversa rispetto a quanto già sentito in precedenza. Pezzi come I Can't Quit You Baby e How Many More Times non fanno altro che confermare questo sound che sarò il marchio di fabbrica per la band negli anni a venire.
Ma il disco è contraddistinto anche da brani più estemporanei, che cercano di attraversare altre idee creative. Baby, I'm Gonna Leave You si fa forte del canto quasi sofferto di Plant che accompagna il delicato arpeggio di Page per poi esplodere definitivamente. Communication Breakdown è una vera e propria scossa elettrica a metà del disco, che renderà questo suono il vero marchio di fabbrica degli Zeppelin, ma è con Dazed And Confused che la band tira fuori il meglio di se stessa. Una rivisitazione di un classico folk, in cui a prendersi la scena è Jimmy Page con il suo infuocato assolo, brano che nelle esibizioni dal vivo poteva a durare anche oltre mezz'ora, in cui Jimmy Page dominava il palco.


Uno dei dischi a cui dobbiamo molta della musica che abbiamo avuto negli anni a venire. Anche non inventando nulla a livello compositivo, il nuovo suono lasciò in molti a bocca aperta, e furono parecchi a ispirarsi a questo lavoro per le proprie composizioni. Uno dei dischi che hanno fondato l'Hard Rock, che per forza di cose è da annoverare tra i più grandi di sempre.

Tracklist :

  1. Good Times Bad Times
  2. Babe, I'm Gonna Leave You,
  3. You Shook Me,
  4. Dazed And Confused,
  5. Your Time Is Gonna Come,
  6. Communication Breakdown,
  7. Black Mountain Side
  8. I Can't Quit You Baby
  9. How Many More Times

domenica 17 novembre 2013

Recensione Deep Purple - In Rock

Dopo tre dischi tra alti e bassi, e una variazione significativa della formazione, nel 1970 i Deep Purple pubblicano il loro quarto album in studio, il primo con la celebre Mark II.

Tra il 1969 e il 1970 si è assistito alla nascita di un genere musicale. L'Hard Rock vede la luce grazie a tre dischi fondamentali. Led Zeppelin I, l'omonimo disco di debutto dei Black Sabbath e il quarto disco dei Deep Purple, In Rock. Dopo tre dischi dominati dal Prog e dall'Hammond di Jon Lord, il cambiamento di rotta fu radicale con l'arrivo di Ian Gillan alla voce e di Roger Glover al basso. Il disco inizia a tracciare la strada che porterà gli anni '70 a essere il periodo d'oro del Heavy Metal. Il suono è volutamente sporco e ruvido, e già dall'intro di Speed King si intuisce la nuova strada presa dalla band. Il disco è pervaso da una scossa che attraversa tutto il gruppo, sembra quasi che ognuno di loro sia intenzionato a mettere in mostra il meglio del proprio repertorio, quasi a sfidare gli altri musicisti. Brani come Speed King e Flight Of The Rat entrano di diritto tra le linee guida per il genere musicale appena nato. Ma l'apice è Child In Time, dieci minuti che partono delicatamente in un crescendo fino ad esplodere. La voce di Gillan tocca altezze impressionanti, così come impressionante è la sfida a suon di chitarra e Hammond che si crea tra Blackmore e Lord. Sembra quasi che si inseguano fino ad arrivare a sovrapporsi e intrecciarsi, creando un muro sonoro con pochi eguali al mondo.


Come detto Deep Purple In Rock è tra i padri fondatori del nascente Hard Rock, ma risulta anche essere il punto più alto a livello artistico dei Deep Purple. L'inizio di una storia fatta di enormi successi e l'ennesima dimostrazione che se il talento c'è prima o poi esce fuori, anche se bisogna aspettare il quarto album.


Tracklist :
  1. Speed King
  2. Bloodsucker
  3. Child in Time
  4. Flight of the Rat
  5. Into the Fire
  6. Living Wreck
  7. Hard Lovin' Man



venerdì 15 novembre 2013

Recensione Francesco Baccini - Nomi e Cognomi

Francesco Baccini è sempre stato un po' snobbato dal pubblico e dalla critica italiana. Nel 1992 all'uscita di questo disco aveva alle spalle già due album in studio e soprattutto una collaborazione con Fabrizio De André per Genova Blues. Lo stile scanzonato e irrisorio delle precedenti produzioni sfocia in questo album in cui Baccini si prende gioco e stigmatizza vizi e comportamenti di diversi personaggi sia reali che inventati, e trova modo per descrivere un ritratto anche di se stesso.
Il filo conduttore del disco è la grande ironia con cui il cantante genovese va a punzecchiare i diversi personaggi presi in considerazione. La difesa a spada tratta nei confronti di Giulio Andreotti è l'esempio più lampante, ma anche le giustificazioni trovate per la tossicodipendenza di Diego Armando Maradona ( Tutti tirano lo sai... ). Non mancano colpi diretti anche ai colleghi come Antonello Venditti e Adriano Celentano colpiti per la loro poetica o per il loro fare da guide spirituali.
Quando una persona è ironica è disposta anche a farla su se stesso, infatti Francesco Baccini è una critica al suo modo di fare, soprattutto nei rapporti con l'altro sesso. Mago Ciro e Margherita Baldacci sono due protagonisti inventati, creati per andare a criticare altre situazioni, vuoi che siano i fantomatici maghi televisivi, o che siano i suoi colleghi con canzoni smielate e disperate. Ma il punto più alto del disco è senz'altro la ballata che Baccini dedica a Renato Curcio, ex brigatista, in cui con voce e piano si lascia da parte l'ironia per riflettere sugli anni di piombo.



Uno dei dischi che negli anni '90 sono passati più sottotraccia, ma che dimostrano un'artista nel pieno della sua forma compositiva, un disco che in molti ricordano per il fatto di fare nomi e cognomi degli attaccati, quando in realtà andrebbe ricordato dal punto di vista artistico, vista la varietà musicale offerta.  

mercoledì 13 novembre 2013

Recensione Guns N'Roses - Appetite Of Destruction

Ci sono album in cui fin dai primi secondi si può capire che saranno dei successi. Appetite
For Destruction è uno di questi. E basta il riff di Welcome To The Jungle per rimanere subito a bocca aperta. In un periodo dominato da band Heavy patinate, e che pensavano più all'apparenza che alla musica, i Guns riportano tutti con i piedi per terra, trascinati da un sound che una volta ascoltato è difficilmente dimenticabile.
I Guns N'Roses vogliono portarci nel loro mondo, in quella Los Angeles di metà anni '80, dove a regnare sono eroina e puttane, ed è questa la giungla per cui ci danno il benvenuto. E proprio da quella giungla, o quella Paradise City se preferite, che prendono spunto la maggior parte dei brani del disco. Si parla di droga, di alcool, di donne, il tutto con un ritmo che deve molto all'Hard Rock più classico, così come al punk, soprattutto per la violenza sia musicale che personale dei musicisti.
Il disco è portato avanti da una delle coppie più discusse della storia della musica. Slash e Axl Rose qua sono nel periodo migliore delle loro carriere, hanno voglia di suonare insieme e di divertirsi, ma soprattutto di divertire il pubblico.
Mano mano che si ascolta questo album sembra di trovarsi di fronte a un Greatest Hits più che a un album di debutto. Ogni singolo brano ha le potenzialità per essere considerato il migliore del lotto, ma ovviamente alla lunga ci sono quelli che spiccano di più rispetto agli altri. La già citata Welcome To The Jungle, Paradise City, Sweet Child O'Mine si rivelano degli istant classic, già dal primo ascolto ci si rende conto di essere dinnanzi a devi pezzi colossali.


Uno dei gruppi più trasgressivi di sempre, ci regala al debutto anche uno dei dischi migliori di sempre. Una pietra miliare nella lunga storia dell'hard rock, e il rilancio del genere in un periodo in cui la musica rock stava andando da altre parti. 

martedì 12 novembre 2013

Recensione The Who - Tommy

Nel 1969 gli Who sono già sulla cresta dell'onda a seguito di dischi come My Generation e The Who Sell Out e grazie alle loro incendiarie esibizioni dal vivo, che si concludevano sempre con la distruzione degli strumenti sul palco.
Pete Townshend inizia ad avere in mente una idea tra il folle e il rivoluzionario. Narrare una storia in musica, la storia di un bambino che a seguito della visione di un omicidio diventa sordo, cieco e muto. Ventiquattro brani lungo la vita di questo ragazzo, dalla nascita alla morte del padre per mano dell'amante della madre e al conseguente isolamento dal mondo. Per passare poi al percorso per tornare alla normalità, attraversando violenze familiari e cure più o meno alternative. Il tutto per arrivare ad una libertà, almeno apparente.

Il disco è la prima vera Opera rock che il mondo ricordi. Il trattare ogni brano come un pezzo di un puzzle fino a completarlo era una cosa mai provata prima ma che ha cambiato per sempre la concezione del disco come opera completa. E Tommy mette in grande evidenza anche le capacità di ognuno di loro, andandoci a regalare dei capitoli che saranno per sempre nella cultura popolare. Brani come Pinball Wizard, Acid Queen, Go To The Mirror faranno la fortuna degli Who negli anni a venire, ma anche di quelli che riproporranno loro versioni degli stessi brani.


Un pezzo di storia, nonché apice della carriera per la band inglese, almeno per quel che riguarda la produzione con la formazione originale. Sembra che tutti fossero ispirati al meglio, e il risultato è un disco che porterà numerose band a creare altre opere rock, tenendo però sempre a mente che il punto di partenza è questo. 

giovedì 7 novembre 2013

Recensione Fabrizio De Andrè - Non Al Denaro, Non All'Amore Né Al Cielo

Per il suo quinto disco in studio Fabrizio De Andrè decise di mettere in musica una delle
opere letterarie che più lo avevano influenzato nel corso della sua formazione culturale. L'Antologia di Spoon River è una raccolta di poesie con protagonisti i sepolti sulla collina di Spoon River appunto.
È un disco che racconta storie di emarginati e reietti, con i loro vizi e le loro virtù, ma è sui primi che De Andrè decide di porre maggiormente l'accento, avendo sempre dichiarato di sentire quei personaggi come un pezzo di se stesso.
Il disco inizia con la stessa introduzione del libro stesso, La Collina in cui si vanno a presentare i tutti i personaggi che in un modo e nell'altro sono finiti sepolti sulla collina di Spoon River. E dalla collina si parte per un viaggio tra questi personaggi ma soprattutto è un viaggio nell'animo umano,
con tutti i suoi sentimenti, mettendone in risalto quelli spesso considerati più negativi. Si parla di invidia, quella provata da chi viene considerato pazzo perché non riesce a esprimersi come gli altri ( Un Matto ) o quella provata da un nano nei confronti della statura degli altri che lo portano a vendicarsi di costoro una volta divenuto giudice ( Un Giudice ). Si tratta di menzogne che portano un medico a vendere pozioni miracolose ( Un Medico ) e ancora di invidia provata da un malato di cuore verso la vita normale che può condurre chi non ha il suo stesso handicap ( Un Malato di cuore ). Il tutto si chiude con una storia di vizi, quella di un musicista che “offrì la faccia al vento, la gola al vino e mai un pensiero non al denaro non all'amore né al cielo...” che fornisce anche il titolo al disco ( Il Suonatore Jones ).



Un percorso quasi onirico, che attraverso i sentimenti di questi uomini, ci porta a conoscere varie sfaccettature della personalità umana, ma più di tutto ci regala un De Andrè che partendo da delle poesie ne riesce a creare altre di egual bellezza, elevandolo ancora una volta tra i massimi esponenti della poesia in Italia nel secondo dopoguerra.