A tre anni di distanza da Io Tra Di
Noi arriva la nuova fatica
discografica di Dente, il cantautore emiliano arriva al suo quinto
album in studio. In questi tre anni Dente non è stato con le mani in
mano, anzi si è proposto in attività sempre inerenti alla musica,
ma diverse dal solito, tanto che ha avuto una sua trasmissione
radiofonica, e si è anche dilettato in alcuni DJ Set.
Per
iniziare è doverosa una premessa. A me Dente non ha mai convinto.
Mai messa in dubbio la capacità compositiva o le doti artistiche, è
probabilmente una questione "a pelle". Soprattutto quando si parla di
cantautori italiani, il concetto principale è che dovrebbero
trasmettere qualcosa, cosa che Dente non mi ha mai trasmesso. Ma fin
dal primo ascolto di questo Almanacco Del Giorno Prima il
cantautore di Fidenza prova a farmi cambiare idea.
Si
nota subito come questo album sia molto più intimo e personale
rispetto ai precedenti lavori. E come nei primi quattro dischi il
tema portante è l'amore, amore tanto caro ai vecchi cantautori
italiani e di conseguenza tanto caro anche a Dente. Ma non è un
amore bello e limpido. È un amore perso, sognato, sperato ma forse
poche volte raggiunto.
Ma il
collegamento con i cantautori italiani non si ferma al solo tema
dell'amore. Tutto il disco è legato a doppio filo ai grandi
esponenti del cantautorato anni '60 e '70, una musica che forse non
c'è più, ma che qualcuno tenta sempre di tenere in vita, come Dente
appunto. Si sentono riecheggiare accenni di Dalla, De Gregori,
Endrigo e Bindi, il tutto però mantenendo il suo stile quasi
vintage, che va a pescare a piene mani dal passato e dal presente
però più lontani da noi. Il tutto per raccontare una realtà quasi
onirica, in cui il confine tra presente e sogno è molto sottile. E
anche la parte musicale, in tutto il suo citazionismo, mantiene una
forte connotazione tipica dell'artista, e non è lasciata in secondo
piano per esaltare i testi, come spesso accade a alcuni artisti
nostrani.
In
tanti spesso azzardano il concetto che la musica italiana è finita,
è morta, è buona solo per Sanremo. Sono tanti i dischi e gli
artisti che invece affermano sempre di più che la musica italiana è
più viva che mai e Dente con questo disco non fa altro che ribadire
il concetto, con un disco perfetto che riesce a far cambiare idea
anche a chi era scettico nei suoi confronti.
David Crosbry ad agosto raggiungerà la
veneranda età di 73 anni. Di cui cinquanta passati nel mondo
discografico. E David Crosby è uno che la musica per come la
conosciamo oggi l'ha creata. La militanza prima nei Byrds, e poi
insieme a musicisti come Nash, Stills e Neil Young mette di diritto
Crosby nel gotha della musica pop e folk. A distanza di più di
vent'anni dall'ultimo lavoro in studio Thousand Roads,
arriva ora Coez nuovo
album di inediti del chitarrista californiano.
Crosby
ha dichiarato che per lui questo album è stata una sfida, visto che
artisti della sua esperienza arrivati a una certa età si dedicano a
cover e rivisitazioni dei loro vecchi classici, mentre lui voleva
provare a distanza di oltre vent'anni a tornare con un disco nuovo. E
possiamo dire fin da subito che la sfida sembra essere vinta. Con il
passare degli anni può venir meno l'energia o la voglia di fare, ma
la classe e l'eleganza sono doti innate in un artista, e David Crosby
dimostra ancora una volta tutta la sua arte. Ci troviamo davanti a un
disco marcatamente Folk, come da stile di Crosby, ma con qualche
deviazione Jazz che da un respiro molto più ampio al lavoro. Nella
traccia d'apertura What's Broken da
rimarcare la presenza di Mark Knopfler che con il suo suono
inconfondibile intrecciati con le note di Crosby creano un pezzo
meraviglioso.
Il
disco scorre via delicato e senza perdersi mai in nulla di inutile,
un lavoro molto facile all'ascolto con cui passare un'ora di ottima
musica. E come spesso accade quando un lavoro è ben fatto nella sua
totalità, e non solo in un paio di brani, nessun brano spicca sugli
altri, anzi è proprio la globalità del disco a risultare di ottima
fattura.
In un
periodo in cui la musica vive di singoli che durano dall'alba al
tramonto, questo è un disco che invece va preso per intero, una
dimostrazione che le doti artistiche non hanno età, anzi forse è
proprio l'esperienza accumulata che permette a Crosby di non
sbagliare nulla in questo album. Soprattutto per i cantautori quando
non si ha nulla da dire è meglio non pubblicare nulla, bene Crosby
si è fatto attendere per venti anni, ma ora qualcosa da dire lo
aveva, e lo ha detto nel migliore dei modi.
Ci sono dischi che vengono osannati sin
dal primo momento che vedono la luce, a volte a ragione a volte solo
per partito preso. Stessa identica cosa per altri dischi che fin
dalla loro uscita creano solo discordia. I Metallica con il loro
quinto album in studio rientrano nella seconda categoria. I fans più
oltranzisti della band di San Francisco avevano già avuto modo di
criticare i Four Horsemen nel precedente lavoro ...And Justice For
All, quando secondo loro si
erano lasciati sedurre dal mondo mainstream girando il loro primo
videoclip per One. L'uscita del Black Album portò un ulteriore dose
di critiche sia per il sound del disco, sia per una canzone in
particolare. Le critiche che venivano mosse era per un sostanziale
abbandono delle sonorità Trash che avevano reso la band un punto di
riferimento del Metal mondiale, per un avvicinamento al più classico
Heavy. Ma la vera pietra dello scandalo fu Nothing Else
Matters. La prima vera ballata
della band californiana, scatenò l'odio da parte dei fan della prima
ora, accusandoli di essersi venduti alle radio e alle tv per
guadagnarne in popolarità. E su un punto avevano ragione, la
popolarità arriverà come mai in precedenza. Il disco arrivò al
grande pubblico, ad oggi le copie vendute sono più di 25 milioni,
probabilmente grazie anche ai suoni più smussati rispetto al
passato.
Ma il
disco non è solo polemiche. È anche un concentrato di come si può
suonare duro strizzando l'occhio al grande pubblico. Brani come Enter
Sandman, Sad But True, The Unforgiven,Wherever I May Roam e
Of Wolf And Man
risultano fin da subito degli instant classic, che ridisegnano il
modo di fare Heavy per come lo si era fatto prima di allora. Anche a
livello di produzione il disco è praticamente perfetto, con il suono
più pulito mai avuto dalla band californiana e con la voce di
Heitfield che non si era mai sentita così pulita.
Un
disco di passaggio tra il vecchio ed il nuovo. Passaggio che sarà
completo con i lavori successivi della band che però non saranno mai
più all'altezza del glorioso passato. Volendo anche la chiusura di
un'epoca, la fine di un periodo meraviglioso che per la band non
tornerà mai più.
Il 1968 è stato l'anno della grande
rivoluzione, culturale prima di tutto e di conseguenza anche
musicale. Ormai la psichedelia era diventata una realtà e faceva da
colonna sonora al movimento Hippie che era al proprio apice. Tra
coloro che avevano fatto diventare la psichedelia uno dei movimenti
di maggior successo c'erano i Beatles. Sgt Pepper e
Magical Mystery Tour
avevano segnato la via per la sperimentazione e la scoperta di suoni
nuovi applicati al pop e al rock. Come al solito i Fab Four si erano
rivelati degli innovatori in ambito musicale.
Ma
molte cose erano cambiate rispetto al 1967 e a quei due dischi che
avevano aperto la strada a nuovi gruppi erano quasi un lontano
ricordo. Ormai le tensioni all'interno della band erano quasi
insostenibili, più che una band erano quattro solisti che
registravano i loro brani per poi metterli insieme in un disco. La
lotta per la leadership tra Lennon e McCartney era uno dei motivi di
maggior tensione all'interno della band, così come la presenza
sempre più ingombrante di Yoko Ono stavano spingendo John sciogliere
la band. Anche George Harrison aveva sempre più voglia di essere
importante nella composizione dei brani, tutti questi fattori
portavano come detto a avere una band spaccata, e come tale decisero
di spaccare anche i due precedenti lavori.
Se i
due dischi precedenti avevano portato il concetto di album a qualcosa
di più realistico rispetto al passato, se i suoni erano rivolti alla
sperimentazione e esisteva un filo conduttore che legava i brani tra
loro, il White Album era
il rovescio della medaglia. Trenta brani sconnessi tra loro, trenta
schegge impazzite che hanno vita propria, come detto create per conto
proprio da ogni singolo componente e registrate in proprio. Un gruppo
all'apice del proprio successo che decide di cambiare bruscamente
strada per andate da tutt'altra parte.
Ma
nonostante le premesse il disco è il concentrato di tutta l'arte e
di tutta l'evoluzione musicale che i Fab Four hanno avuto nel corso
degli anni. Brani come Back In The Ussr, Dear Prudence,
Ob-la-di Ob-la-da, Blackbird,
Sexy Sadie, Helter Skelter, Revolution n.1
sono da considerare tra i brani più importanti della sconfinata
produzione Beatlesiana. Ma forse l'apice viene toccato con While
My Guitar Gently Weeps composta
e suonata da George Harrison con alla chitarra solista un Eric
Clapton, canzone che rappresenta appieno la situazione interna alla
band, in cui si preferiva suonare con altri musicisti invece che con
i compagni di una vita. L'unica vera critica che può essere mossa
all'album bianco è l'eccessiva lunghezza, in cui i Beatles hanno
infilato dentro tutto il materiale che avevano, ma anche questo può
essere considerato nel concetto di cambiamento rispetto al passato.
Così come anche la copertina, un bianco totale che si va a scontrare
con i colori e le citazioni presenti nelle copertine dei dischi che
lo avevano preceduto.
Se Sgt
Pepper è da più parti
riconosciuto come il più grande disco della storia della musica,
questo White Album è
un sunto di una carriera vissuto al massimo livello sempre. Il titolo
sarebbe potuto essere tranquillamente “Come distruggiamo Sgt Pepper
e comunque facciamo un capolavoro”, ma per semplicità hanno voluto
riassumere questa opera omnia con il titolo forse che più racchiude
tutto, The Beatles.
Dopo essersi presi un anno sabbatico,
il 2013, ecco tornare con un nuovo disco gli Zen Circus. Ottavo disco
in studio per la band pisana e terzo completamente in italiano, dopo
gli ottimi Andate Tutti Affanculo e
Nati Per Subire.
Canzoni Contro La Natura
arriva a tre anni di distanza da Nati Per Subire,
ma soprattutto dopo il 2013 che come detto è stato un anno di pausa
per la band, ma non per i singoli componenti. E mentre Ufo girava per
l'Italia a dilettarsi come DJ, Karim Qqru e Appino hanno dato alle
stampe i loro primi lavori paralleli, La Notte Dei Lunghi Coltelli
per il batterista, ma soprattutto Appino che con il suo Il Testamento si è
addirittura aggiudicato la targa Tenco come miglior opera prima.
La
prima cosa che si nota dall'ascolto di questo nuovo album, è che
ormai gli Zen Circus sono diventati grandi. La metamorfosi che ha
preso il via con Andate Tutti Affanculo
è completa, e la band pisana si trova probabilmente nel punto più
alto della sua carriera.
Gli
Zen da quando hanno iniziato a cantare in italiano, hanno tirato
fuori tutto il loro lato nazional-popolare. Ma non nell'accezione
negativa del termine. Hanno iniziato a cantare del nostro paese, e in
particolar modo di una generazione che sembra essere allo sbando,
senza sapere quello che ha e quello che vuole. Ma non si sono mai
eretti a guida spirituale di una generazione come in passato è
accaduto ad altre band. Loro si sono limitati ad osservare e cantare
soprattutto i lati negativi di questi giovani italiani.
E non
fa eccezione questo nuovo lavoro della band pisana. Le canzoni di
questo album sono si contro la natura, ma contro la natura umana.
Quella natura umana ormai deviata con comportamenti e modi di fare
tipici del nostro Bel Paese. Già dai due singoli, Viva e
Postumia, la via degli
Zen Circus è parsa subito molto chiara. La falsariga è quella dei
precedenti due lavori, si parla dell'Italia di oggi, con tutte le sue
contraddizioni. E proprio Viva è
un inno al qualunquismo, in cui tutto è da esaltare ( dal Duce alla
Fica ) in pieno stile italico. Ma c'è anche la crisi e i giovani che
non hanno prospettive ( Postumia, Vai Vai Vai, No Way
),così come
ovviamente si parla anche della Natura, quella con la N maiuscola,
quella che fa paura ( Canzone
Contro La Natura ) e come
in tutti i dischi degli Zen anche Dio è al centro dell'attenzione e
nella riuscitissima ballata Albero Di Tiglio, Appino
e soci si domandano come sarebbe se Dio invece che forma umana avesse
quella di un albero.
Ma
essendo come detto nazional-popolari non mancano i riferimenti alla
nostra musica e cultura. Si va da Ungaretti a De André ( L'Anarchico
e Il Generale ), ai grillini e
Ligabue ( Viva ) fino
a richiami di Rino Gaetano.
Gli
Zen Circus sfornano un altro lavoro all'altezza delle aspettative,
che magari non accontenterà tutti i loro fans, viste anche alcune
scelte musicali azzardate, un disco in cui è difficile riconoscere
troppe tracce alla loro maniera, ma che come detto risulta essere
molto più adulto e maturo. Un disco che serve a ricordare, se ce ne
fosse bisogno, che gli Zen Circus sono tra le migliori realtà
musicali italiane.
Vagare per le terre selvagge. Vivere
fuggendo dal capitalismo e dal benessere. È quello che fa
Christopher McCandless, viaggiare per gli Stati Uniti vivendo di quel
che riesce a trovare, più che altro sopravvivendo. Fino a che il suo
viaggio non arriva a destinazione, in quell'Alaska che per lui
rappresenta lo stato selvaggio per eccellenza, tale e quale a come
dovrebbe essere la vita di un uomo.
Sean Penn prende spunto dal diario di
Christopher per realizzare un film magnifico sul rapporto tra l'uomo
e la natura, un film in cui sono le immagini a farla da padrone, con
scenari mozzafiato e indimenticabili. E Sean Penn sa benissimo che
per rendere nel migliore dei modi queste immagini anche la musica
deve essere molto evocativa, così affida la colonna sonora di Into
The Wild a Eddie Vedder.
Il leader dei Pearl Jam è alla prima
vera prova da solo, senza il supporto della sua band, e armandosi di
chitarra e ukulele scrive le musiche per quello che finora è
l'ultima opera di Sean Penn come regista.
Eddie Vedder si cala alla perfezione
nella parte, capendo appieno quali sono i suoni adatti per le
immagini che passano sullo schermo, e complice anche la sua
propensione per le ballate, come già dimostrato con i Pearl Jam,
realizza quello che a tutti gli effetti si può definire un disco
folk, totalmente distante dalla sua carriera con la band di Seattle.
Si parla di libertà, di solitudine, di
una società che non ci appartiene, il tutto miscelato con note che
al solo ascoltarle ci riportano lungo i percorsi di McCandless. Brani
come Hard Sun, Society, Rise
ci fanno conoscere un Vedder molto più intimo e introspettivo, un
lato di se che ogni tanto faceva capolino nei brani dei PJ, ma che
prendono il controllo totale del disco, per portarci nelle terre
selvagge insieme al protagonista del film.
La tradizione Hard Rock in Italia non è
mai stata il nostro fiore all'occhiello. Ci siamo dati da fare con
altri generi nel corso degli anni, Prog su tutti, ma l'Hard Rock non
è mai stato il nostro forte. Cantato in italiano poi non ne parliamo
neanche, sarebbe come vagare per delle lande desolate. Però per ogni
regola possono esistere delle eccezioni, e gli Ushas rientrano tra
queste.
Gli Ushas nascono negli ormai lontani
anni '90 ma solo nel 2013 realizzano il loro primo album. Vuoi per la
spinta ricevuta dall'aver vinto un contest per band emergenti,
decidono di mettere su disco le loro composizioni ormai suonate da
anni dal vivo.
Venendo da anni e anni di attività
live nei maggiori locali della capitale, la prima cosa che balza
subito all'orecchio di chi ascolta è l'affiatamento della band. Non
sbagliano un'entrata, non sbagliano un tempo, il tutto sintomo di un
gruppo rodato sul campo.
Quello che gli Ushas ci fanno ascoltare
è un Hard Rock di vecchio stampo, di zeppeliniana memoria, e come
gli Zeppelin lo sguardo è rivolto a Oriente, ai suoi suoni e alla
sua cultura. Già il nome Ushas è preso dalla Dea dell'aurora nella
tradizione indiana dei Veda ( grazie alla bio della band! ) così
come il titolo Verso Est ci riporta all'India, così come i suoni
iniziali di La Via Della Seta o
come le parole di Dai Tetti Di Gaden.
Uno dei punti
focali dell'album è la scelta della band di cantare in italiano, un
genere che per definizione non è molto adatto alla nostra lingua.
Cosa che però viene smentita dalla band romana, che dimostra che con
la scelta giusta delle parole nulla è precluso.
In conclusione si
può dire che gli Ushas non inventano nulla di nuovo ma ripropongono
un tipo di musica che da quarant'anni in tanti hanno già proposto.
Il punto principale è che loro lo fanno bene. Il disco è suonato
egregiamente, senza un minimo punto debole, in cui tutti e quattro i
componenti della band sanno quello che devono fare e lo fanno alla
grande.
Tracklist :
1. Fuorilegge 2. Sangue E Carne 3.
Io Non Sono Qui 4. La Via Della Seta 5. Verso Est 6. Shri
Heruka 7. Dai Tetti Di Gaden 8. Desperados 9. Yama 10.
Maledetta Notte
La fine di un sodalizio artistico può
essere paragonato alla fine di un amore. E come tale lascia
strascichi nella vita di chi è coinvolto. Quello che ci hanno
lasciato Simon & Garfunkel dalla fine della loro storia (
artistica si intende ) è Bridge Over Troubled Water. Forse
uno delle migliori eredità mai lasciate da una band per chiudere la
loro carriera insieme.
Ma
questo disco oltre a segnare la fine del duo, segna anche la fine di
un'epoca. Arrivano al capolinea anche gli anni '60, e con loro il
folk inteso in una certa maniera. Alla maniera pura, senza
intromissioni di altro genere. E se nel 1965 Bob Dylan con la sua
elettrica a Newport aveva fatto imboccare il viale del tramonto a
questo tipo di Folk, Simon & Garfunkel con questo loro ultimo
lavoro segnarono la parola fine, aprendo di fatto gli anni '70 fatti
di contaminazioni e intrecci tra generi.
Paul
Simon e Art Garfunkel erano ai ferri corti ormai da tempo. Simon era
la vera mente del duo, ma era convinto di non veder riconosciuti i
suoi meriti. Lui era l'autore, il chitarrista mentre secondo lui
Garfunkel metteva solo a disposizione la sua splendida voce per
l'esecuzione. I due praticamente si ignoravano, ma decisero comunque
di registrare questo ultimo lavoro. E tirarono fuori il miglior
lavoro della loro carriera insieme.
La
titletrack è una ballata per voce e chitarra che rapisce per il suo
testo che è un elogio all'amicizia, quella vera, che è da subito
inserita tra i classici della band. Così come la spinta emotiva è
fondamentale per The Boxer,
ballata su un uomo in rovina. Ma il classicismo si ferma qui, perché
il disco è zeppo di suoni nuovi per i due. Cecilia e
Il Condor Pasa hanno
ritmi esotici, che fanno notare la passione per Simon verso i suoni
che vengono da lontano, passione che uscirà completamente fuori con
i suoi lavori da solista. Il resto dell'album è un trattato di come
si dovrebbe fare musica pop. L'anima del disco è attraversata dallo
spirito dei Beatles, con alcune canzoni che fanno pensare subito ai
Fab Four, ma ampliate dalle armonie vocali che i due newyorkesi
sapevano creare.
Il
testamento di una band, di due uomini che non si ritroveranno mai a
livello umano, anche se ogni tanto tornano sul palco per deliziare i
loro fan con la loro arte ( il live a Central Park su tutto ). Da qui
in poi Simon avrà una carriera splendente come solista, dimostrando
che forse aveva ragione a pensare di avere la maggior parte dei
meriti, mentre Garfunkel avrà un futuro abbastanza trascurabile.
Quello che resta è uno dei più grandi dischi pop di sempre, che
dovrebbe essere da guida anche per chi suona musica leggera a più di
quarant'anni di distanza.
Qual'è
la differenza principale tra cinema, letteratura e musica? Un libro o
un film sono sempre quelli, li puoi vedere o leggere all'infinito, e
per quanto belli siano, non cambiano mai. La musica invece cambia,
perché è in possesso di una dimensione ulteriore rispetto alle
altri due arti. Il live. Si puoi ascoltare un disco un milione di
volte, poi magari lo senti suonato dal vivo e risulterà sconvolto in
tutta la sua essenza.
I
concerti sono ormai la parte fondamentale della discografia mondiale,
sono l'ingranaggio che fa girare un meccanismo che se vivesse solo di
album si incepperebbe presto. E di concerti memorabili ce ne sono
stati una valanga. E molti di questi sono stati impressi per sempre
in album indimenticabili.
Oggi
farò una panoramica tra quelli che considero i dieci album migliori
dal vivo, per la precisione saranno dieci +1. Saranno presi in
considerazione solo pubblicazioni ufficiali, quindi niente Bootleg,
niente registrazioni varie, niente video live messi in rete, ma solo
dischi ufficiali, altrimenti la lista sarebbe stata infinita.
Partiamo
con il +1, una menzione speciale. I Pearl Jam ormai da oltre un
decennio registrano e rendono disponibili su disco tutti i loro
concerti. Trattandosi di una collezione di circa quattrocento dischi
fare una scelta sarebbe assolutamente impossibile, quindi li
prendiamo tutti senza far distinzioni.
In
Italia la tradizione di dischi dal vivo non è esaltante. Soprattutto
negli ultimi anni vengono considerati più un qualcosa che serve a
non far scemare la notorietà di un artista piuttosto che dei lavori
importanti a tutti gli effetti. Questo disco di Guccini è l'antitesi
del disco dal vivo. Sono serate con gli amici in osteria registrate e
messe su disco. Ma è utilissimo per capire chi è veramente il
cantautore modenese, un artista impegnato ma anche scanzonato, che
non si risparmia mai quando c'è da far divertire, mettendo in musica
tutto il suo essere un istrione.
Prima
dei Metallica in molti avevano provato a unire una band rock con
un'orchestra sinfonica. Ci avevano provato i Deep Purple, i Kiss, i
Queen e tanti altri, ma poche volte il risultato è stato così
perfetto come nel caso dei Metallica. Grazie soprattutto
all'arrangiamento di un grandissimo come Michael Kamen le due entità
che si univano sul palco del teatro dell'opera di San Francisco
riescono a miscelarsi alla perfezione dando una nuova linfa ai grandi
classici della band Metal. Questo disco segna per certi versi la fine
del periodo di massimo splendore artistico per i Metallica, che da lì
a poco inizieranno una discesa che durerà parecchio tempo.
8.Unplugged
in New York - Nirvana
Mtv
aveva avuto una brillante idea con questi show in cui vari artisti
reinterpretavano i loro successi in versione acustica. Si sono
cimentati in questa prova i maggiori artisti della musica rock, da
ricordare su tutti gli Unplugged di Clapton e Bob Dylan. Ma quando a
New York fu la volta della band di Kurt Cobain si capì che era
qualcosa di diverso. Un'atmosfera quasi mistica e dall'incredibile
impatto emotivo. Dal punto di vista personale uno dei dischi più
toccanti, con il merito principale che va alla grandissima prova di
Kurt Cobain che da lì a poco ci avrebbe lasciato.
7.Live
At Sin-è – Jeff Buckley
Un
altro artista che ci ha lasciato troppo presto, che si fece conoscere
proprio con questo album dal vivo. La prima pubblicazione ufficiale
di Jeff è proprio questo concerto, in cui si inizia a conoscere
quella che sarà una delle voci più intense della fine del secolo
scorso. E ci fa conoscere quelli che saranno i successi presenti poi
sul disco dell'anno successivo, Grace.
Mojo Pin,Grace
e poi le cover Just
Like A Woman ( Bob Dylan )e Hallelujah (
Leonard Cohen ) di un elevato impatto emotivo.
6.The
Concert in Central Park – Simon & Garfunkel
La
coppia che scoppia e si ritrova. Questo potrebbe essere il
sottotitolo di questo album. Simon e Garfunkel si erano lasciati a
malo modo nel 1972 e a distanza di quasi dieci anni decidono di
riunirsi per un solo concerto, appunto a Central Park. Il pubblico
era di circa mezzo milione di persone, accorsi ad ascoltare i grandi
successi del duo. Anche se i due artisti quasi si ignorarono sul
palco, le loro doti artistiche erano talmente elevate da tirar fuori
un concerto praticamente perfetto.
5.Live
At The Apollo – James Brown
Quando
si parla di esperienze al limite del mistico sul palco, bisognerebbe
sempre citare James Brown. Il padrino dei Soul era solito essere una
furia sul palco. Regalava memorabili esibizioni, in cui cantava,
ballava e teneva in pugno la folla come pochi hanno mai saputo fare
nella storia. Ed erano davvero una sorta di liturgia i suoi concerti.
E questo spirito è reso perfettamente in questo album del 1962,
registrato proprio nel periodo di massimo splendore del cantante
americano.
4.Made
In Japan – Deep Purple
Tecnicamente
parlando questo è forse il miglior album dal vivo di sempre.
Registrato durante la tournèe giapponese del 1972. I pezzi proposti
sono tra i più celebri della band britannica, ma sono suonati alla
perfezione, senza una minima sbavatura che dal vivo può anche essere
accettata. La versione di Smoke On The Water in
questo album è forse più conosciuta della versione in studio, e
rimangono celebri i giochi di voce e chitarra tra Gillian e
Blackmore, in cui Ian con la voce replicava praticamente identiche le
note suonate da Ritchie con la sua Stratocaster.
Il
disco che segnava il ritorno sulle scene del Man In Black. Un album
dal vivo registrato nel carcere di massima sicurezza di Folsom,
suonando per un pubblico che Cash sentiva molto vicino. Un JohnnyCash in grande spolvero che ripropone i suoi grandi classici,
affiancato come sempre dall'amata June Carter. Uno dei dischi più
venduti di sempre, e mai tante vendite sono state così meritate.
2.Live
At Wembley '86 – Queen
Una
delle ultime esibizioni dal vivo dei Queen, davanti a un Wembley
Stadium più che gremito. E tutta la forza di Freddie Mercury che
prende la scena da subito e non la lascia più. Il pubblico estasiato
non fa che aiutare la riuscita di questo live. Anche qui troviamo
tutti i classici della band inglese, riproposti nella loro epicità e
con una voglia che li ha sempre contraddistinti nelle esibizioni
pubbliche.
1.Live
At Leeds – The Who
Qui
ci troviamo di fronte all'unico live ufficiale con la formazione
originale della band inglese. Era da poco uscito Tommy
e il tour era incentrato su quell'album che veniva proposto per
intero nella seconda parte del concerto. Una delle pochissime volte
che è stata presa l'anima di una band e incisa su disco. Tutta la
forza e la violenza dei live degli Who la ritroviamo in questo disco.
Da più parti considerato il miglior live di sempre.
“De André non è stato mai di
moda. E infatti la moda, effimera per definizione, passa. Le canzoni
di Fabrizio restano” - Nicola Piovani
Milano, 11 Gennaio
1999 h 02.30
Quindici anni fa si spegneva in un ospedale di Milano nel cuore della
notte Fabrizio De André. Ce lo ha portato via un tumore ai polmoni.
Ricordo ancora il momento in cui al TG il giorno successivo diedero
la notizia, e ricordo alla perfezione il dolore che mi provocò
quella notizia. All'epoca ero un giovane adolescente che aveva appena
iniziato a scoprire questo meraviglioso artista. La colpa della mia
scoperta di De André è da dare a mia sorella. Tra le sue
musicassette fatte in casa ne aveva una di De Andrè, da un lato
c'era Rimini e dall'altro Vol. 3. Quella cassetta
l'avrò ascoltata non so quante volte, difatti quei due album saranno
per sempre tra i miei preferiti.
Ma Faber è uno di quegli artisti che devono essere scoperti piano
piano, perché ogni volta che si ascolta qualcosa che non si conosce
è davvero una nuova scoperta, ed ogni volta è un nuovo amore.
È stato l'artista italiano che ha stravolto la canzone in Italia per
come la si conosceva prima di lui, e dopo di lui tutti hanno dovuto
confrontarsi con la sua arte, confronto spesso improponibile.
Su De André in questi quindici anni si è detto e scritto tutto, a
volte anche troppo, per un artista che ha veramente elevato la musica
a poesia. Infatti non mi dilungherò più di tanto a raccontarvi la
sua vita e le sue opere. Man mano che conoscevo sempre di più la sua
discografia mi stupivo di come Faber avesse varie facce, e ogni disco
poteva contenere anche tutte le sue varie anime, che si mescolavano
tra loro per creare un qualcosa di mai visto prima, e neanche dopo.
Con tutta l'umiltà possibile vorrei dare un'occhiata a queste sue
facce, per cercare di farvi capire cosa è stato per me Fabrizio De
André.
L'innamorato
“Ti
ho trovata lungo il fiume che suonavi una foglia di fiore che cantavi
parole leggere, parole d'amore ho assaggiato le tue labbra di miele
rosso rosso ti ho detto dammi quello che vuoi, io quel che posso.” -
Se Ti Tagliassero A Pezzetti
Si
l'innamorato, perché tra le tanti doti di Faber c'è stata quella di
parlare e scrivere d'amore come pochi hanno fatto nella loro
carriera. Ma l'amore di Faber non è mai quello cantato in Italia,
dove l'amore era sempre pieno di fiori e colori, il suo è sempre un
amore sofferto, dolorante, mai gioioso. Ma proprio per questo è
molto più vero rispetto a quello sentito da altri artisti. Si parla
spesso di amori perduti, o di amori diversi, fu tra i primi a parlare
di omosessuali senza preconcetti raccontando anche i loro di amori (
Andrea ).
e questo ci porta alla sua altra faccia.
Il
Diverso
“Per
chi viaggia in direzione ostinata e contraria, col suo marchio
speciale di speciale disperazione” - Smisurata
Preghiera
Faber
era diverso da tutti gli altri artisti italiani. Era una diversità
dovuta sia alla sua indole, sia a quello che scriveva. È sempre
stato vicino alle minoranze, quelle che nessuno osava citare nelle
proprie opere, abbiamo canzoni che parlano di Rom ( Khorakhané
) , di indiani d'America ( Fiume
Sand Creek
), di transessuali ( Princesa
), di prostitute ( Via
Del Campo
), come detto di omosessuali tutti argomenti che non venivano toccati
da altri artisti di un certo calibro. Ma lui era diverso proprio di
indole. Faber è quello che per i primi dieci anni di carriera non ha
fatto neanche un concerto, vuoi per l'eccessiva timidezza, vuoi per
un problema ad un occhio di cui si vergognava. È lo stesso che
scrisse uno dei suoi massimi capolavori, Amico
Fragile,
dopo aver avuto una discussione con dei personaggi altolocati perché
volevano a tutti i costi che cantasse una canzone, quando lui non ne
aveva voglia.
Il
Popolare
“Una
gamba qua, una gamba là, gonfi di vino quattro pensionati mezzo
avvelenati al tavolino li troverai là, col tempo che fa, estate e
inverno a stratracannare a stramaledire le donne, il tempo ed il
governo. “ - La
Città Vecchia
Nonostante
venisse da una famiglia agiata, il padre vicesindaco di Genova, De
André si è sempre considerato un uomo del popolo. E in tutte le sue
opere si sente questa sua vicinanza alla gente. Una delle capacità
maggiori di Faber era il saper descrivere e raccontare le persone.
Persone vere o create ad arte, i suoi personaggi restano nella
memoria con una forza dirompente. Vuoi che siano i personaggi che
riposano sulla collina ( Non Al Denaro Non All'Amore Né Al Cielo
), o le persone di tutti i giorni, quelli che si possono incontrare
per la strada, di cui ha saputo cantare in modo superlativo.
Senza
mai dimenticare tutta la sua produzione in dialetto, Cruezà
De Ma su
tutti, in cui questa sua indole prendeva ancora più il sopravvento.
Lo
Spirituale
“Alcuni
lo dissero santo, per altri ebbe meno virtù, si faceva chiamare
Gesù.” - Si
Chiamava Gesù
La religione è sempre stato uno dei
temi più controversi nella sua produzione artistica. Fin dal
principio si è letta una forte critica, non tanto a Dio o alla sua
esistenza, ma più che altro all'uso strumentale che ne veniva fatto
sia dai laici sia dagli ecclesiastici. Non si è mai dichiarato
credente, ma ha spesso toccato il tema, dimostrando un evoluzione nel
corso degli anni. La Buona Novella
è la sublimazione del primo De André in cui fornisce una sua
rilettura del vangelo proponendo, concentrandosi sulla Madonna,
mostrandola umana e non divina come nella Bibbia.
Ma
dopo il 1979 e il rapimento subito in Sardegna da parte dell'Anonima,
viene quasi completamente abbandonato il tema religioso. Dichiarò
che durante la prigionia lo aiutarono la fede negli uomini,
visto
che considera Dio un invenzione umana.
L'onirico
“E
quando avevo duecento lune e forse qualcuna è di troppo rubai il
primo cavallo e mi fecero uomo cambiai il mio nome in "Coda di
lupo" cambiai il mio pony con un cavallo muto” - Coda
Di Lupo
Questa
è forse l'anima preponderante di De André. Quella faccia divisa tra
sogno e realtà, capace di creare poesie incredibili. Tanti sono
stati i cantautori che hanno raccontato la realtà, forse anche
meglio di Faber. Ma nessuno riusciva a portare la realtà su un altro
livello, un livello quasi magico, in cui si incontra con il sogno. I
suoi brani più conosciuti sono tutti qua, Il
Pescatore come
Bocca
Di Rosa,
La
Guerra Di Piero
e La
Canzone Di Marinella.
È in questo ambito che De André era superiore a tutti gli altri.
Era capace di far sognare solamente ascoltando una canzone.
L'Impegnato
“Anche
se il nostro maggio ha fatto a meno del vostro coraggio, se la paura
di guardare vi ha fatto chinare il mento, se il fuoco ha risparmiato
le vostre Millecento, anche se voi vi credete assolti siete lo stesso
coinvolti. “ - Canzone
Del Maggio
Come
tutti i cantautori della sua stessa generazione, visto anche il
contesto storico in cui ha operato, De André non poteva esimersi dal
cantare la protesta, dovuta anche alle sue idee di anarchia. Ideali
anarchici che lo portarono anche ad essere controllato per dieci anni
dai servizi segreti, che lo ritenevano pericolo e sovversivo.
Storia Di Un Impiegatoè
il punto massimo di questa sua contestazione, con la sua visione del
'68, ma la protesta di Faber non si ferma a quel disco. La
domenica Delle Salme
è un concentrato di tutta questa sua protesta, in cui non viene
risparmiato nessuno, nemmeno i suoi colleghi.
Ma
l'impegno politico è innato in chi ha da sempre cantato e descritto
gli ultimi, i reietti, quindi non poteva essere che De André non
mostrasse nettamente questa sua facciata.
Il
Guascone
“E'
mai possibile o porco di un cane che le avventure in codesto reame
debban risolversi tutte con grandi puttane “
- Carlo Martello Ritorna Dalla Battaglia Di Poitiers
Questa
è la parte di De André che viene spesso scordata o messa in secondo
piano. In mezzo a tutti le opere elevate che ci ha regalato non ha
mai dimenticato di prendere il tutto alla leggera, senza la pretesa
di essere un poeta o un possessore della verità assoluta. Ed è per
questo che non si è mai tirato indietro quando c'era da scherzare,
anche nelle canzoni. Il punto massimo è sicuramente Carlo
Martello
in cui però c'è lo zampino dell'amico di sempre Paolo Villaggio. Ma
anche brani come Il
Testamento, Il Gorilla, Si Fosse Foco, La Ballata Dell'Amore Cieco
ci regalano degli spaccati di un Faber giocoso, che non si prendeva
sul serio ed era capace anche di strappare dei sorrisi.
Mi
sono dilungato fin troppo, ma per un artista, un poeta, un'icona
della nostra cultura del novecento era doveroso parlarne abbastanza
ampiamente. Tutte queste parole per ricordare quella maledetta notte
di quindici anni fa che ce lo portò via. Lo portò via a chi lo
seguiva da una vita, a chi lo aveva appena sfiorato ( come il
sottoscritto ) e a chi lo sta conoscendo solo ora dopo la sua morte.
Ci ha lasciato in eredità opera favolose, da cui possiamo attingere
a piene mani per tutti i giorni che ci restano, ma l'unica
recriminazione è che è andato via troppo presto, quando avrebbe
potuto regalarci ancora tanto.