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giovedì 30 gennaio 2014

Recensione Dente - L'Almanacco Del Giorno Prima

A tre anni di distanza da Io Tra Di Noi arriva la nuova fatica discografica di Dente, il cantautore emiliano arriva al suo quinto album in studio. In questi tre anni Dente non è stato con le mani in mano, anzi si è proposto in attività sempre inerenti alla musica, ma diverse dal solito, tanto che ha avuto una sua trasmissione radiofonica, e si è anche dilettato in alcuni DJ Set.

Per iniziare è doverosa una premessa. A me Dente non ha mai convinto. Mai messa in dubbio la capacità compositiva o le doti artistiche, è probabilmente una questione "a pelle". Soprattutto quando si parla di cantautori italiani, il concetto principale è che dovrebbero trasmettere qualcosa, cosa che Dente non mi ha mai trasmesso. Ma fin dal primo ascolto di questo Almanacco Del Giorno Prima il cantautore di Fidenza prova a farmi cambiare idea.
Si nota subito come questo album sia molto più intimo e personale rispetto ai precedenti lavori. E come nei primi quattro dischi il tema portante è l'amore, amore tanto caro ai vecchi cantautori italiani e di conseguenza tanto caro anche a Dente. Ma non è un amore bello e limpido. È un amore perso, sognato, sperato ma forse poche volte raggiunto.


Ma il collegamento con i cantautori italiani non si ferma al solo tema dell'amore. Tutto il disco è legato a doppio filo ai grandi esponenti del cantautorato anni '60 e '70, una musica che forse non c'è più, ma che qualcuno tenta sempre di tenere in vita, come Dente appunto. Si sentono riecheggiare accenni di Dalla, De Gregori, Endrigo e Bindi, il tutto però mantenendo il suo stile quasi vintage, che va a pescare a piene mani dal passato e dal presente però più lontani da noi. Il tutto per raccontare una realtà quasi onirica, in cui il confine tra presente e sogno è molto sottile. E anche la parte musicale, in tutto il suo citazionismo, mantiene una forte connotazione tipica dell'artista, e non è lasciata in secondo piano per esaltare i testi, come spesso accade a alcuni artisti nostrani.


In tanti spesso azzardano il concetto che la musica italiana è finita, è morta, è buona solo per Sanremo. Sono tanti i dischi e gli artisti che invece affermano sempre di più che la musica italiana è più viva che mai e Dente con questo disco non fa altro che ribadire il concetto, con un disco perfetto che riesce a far cambiare idea anche a chi era scettico nei suoi confronti.

mercoledì 29 gennaio 2014

Recensione David Crosby - Croz


David Crosbry ad agosto raggiungerà la veneranda età di 73 anni. Di cui cinquanta passati nel mondo discografico. E David Crosby è uno che la musica per come la conosciamo oggi l'ha creata. La militanza prima nei Byrds, e poi insieme a musicisti come Nash, Stills e Neil Young mette di diritto Crosby nel gotha della musica pop e folk. A distanza di più di vent'anni dall'ultimo lavoro in studio Thousand Roads, arriva ora Coez nuovo album di inediti del chitarrista californiano.


Crosby ha dichiarato che per lui questo album è stata una sfida, visto che artisti della sua esperienza arrivati a una certa età si dedicano a cover e rivisitazioni dei loro vecchi classici, mentre lui voleva provare a distanza di oltre vent'anni a tornare con un disco nuovo. E possiamo dire fin da subito che la sfida sembra essere vinta. Con il passare degli anni può venir meno l'energia o la voglia di fare, ma la classe e l'eleganza sono doti innate in un artista, e David Crosby dimostra ancora una volta tutta la sua arte. Ci troviamo davanti a un disco marcatamente Folk, come da stile di Crosby, ma con qualche deviazione Jazz che da un respiro molto più ampio al lavoro. Nella traccia d'apertura What's Broken da rimarcare la presenza di Mark Knopfler che con il suo suono inconfondibile intrecciati con le note di Crosby creano un pezzo meraviglioso.


Il disco scorre via delicato e senza perdersi mai in nulla di inutile, un lavoro molto facile all'ascolto con cui passare un'ora di ottima musica. E come spesso accade quando un lavoro è ben fatto nella sua totalità, e non solo in un paio di brani, nessun brano spicca sugli altri, anzi è proprio la globalità del disco a risultare di ottima fattura.
In un periodo in cui la musica vive di singoli che durano dall'alba al tramonto, questo è un disco che invece va preso per intero, una dimostrazione che le doti artistiche non hanno età, anzi forse è proprio l'esperienza accumulata che permette a Crosby di non sbagliare nulla in questo album. Soprattutto per i cantautori quando non si ha nulla da dire è meglio non pubblicare nulla, bene Crosby si è fatto attendere per venti anni, ma ora qualcosa da dire lo aveva, e lo ha detto nel migliore dei modi. 

martedì 28 gennaio 2014

Recensione Metallica - Metallica ( Black Album )


Ci sono dischi che vengono osannati sin dal primo momento che vedono la luce, a volte a ragione a volte solo per partito preso. Stessa identica cosa per altri dischi che fin dalla loro uscita creano solo discordia. I Metallica con il loro quinto album in studio rientrano nella seconda categoria. I fans più oltranzisti della band di San Francisco avevano già avuto modo di criticare i Four Horsemen nel precedente lavoro ...And Justice For All, quando secondo loro si erano lasciati sedurre dal mondo mainstream girando il loro primo videoclip per One. L'uscita del Black Album portò un ulteriore dose di critiche sia per il sound del disco, sia per una canzone in particolare. Le critiche che venivano mosse era per un sostanziale abbandono delle sonorità Trash che avevano reso la band un punto di riferimento del Metal mondiale, per un avvicinamento al più classico Heavy. Ma la vera pietra dello scandalo fu Nothing Else Matters. La prima vera ballata della band californiana, scatenò l'odio da parte dei fan della prima ora, accusandoli di essersi venduti alle radio e alle tv per guadagnarne in popolarità. E su un punto avevano ragione, la popolarità arriverà come mai in precedenza. Il disco arrivò al grande pubblico, ad oggi le copie vendute sono più di 25 milioni, probabilmente grazie anche ai suoni più smussati rispetto al passato.
Ma il disco non è solo polemiche. È anche un concentrato di come si può suonare duro strizzando l'occhio al grande pubblico. Brani come Enter Sandman, Sad But True, The Unforgiven,Wherever I May Roam e Of Wolf And Man risultano fin da subito degli instant classic, che ridisegnano il modo di fare Heavy per come lo si era fatto prima di allora. Anche a livello di produzione il disco è praticamente perfetto, con il suono più pulito mai avuto dalla band californiana e con la voce di Heitfield che non si era mai sentita così pulita.

Un disco di passaggio tra il vecchio ed il nuovo. Passaggio che sarà completo con i lavori successivi della band che però non saranno mai più all'altezza del glorioso passato. Volendo anche la chiusura di un'epoca, la fine di un periodo meraviglioso che per la band non tornerà mai più.

lunedì 27 gennaio 2014

Recensione The Beatles - The Beatles ( White Album )


Il 1968 è stato l'anno della grande rivoluzione, culturale prima di tutto e di conseguenza anche musicale. Ormai la psichedelia era diventata una realtà e faceva da colonna sonora al movimento Hippie che era al proprio apice. Tra coloro che avevano fatto diventare la psichedelia uno dei movimenti di maggior successo c'erano i Beatles. Sgt Pepper e Magical Mystery Tour avevano segnato la via per la sperimentazione e la scoperta di suoni nuovi applicati al pop e al rock. Come al solito i Fab Four si erano rivelati degli innovatori in ambito musicale.
Ma molte cose erano cambiate rispetto al 1967 e a quei due dischi che avevano aperto la strada a nuovi gruppi erano quasi un lontano ricordo. Ormai le tensioni all'interno della band erano quasi insostenibili, più che una band erano quattro solisti che registravano i loro brani per poi metterli insieme in un disco. La lotta per la leadership tra Lennon e McCartney era uno dei motivi di maggior tensione all'interno della band, così come la presenza sempre più ingombrante di Yoko Ono stavano spingendo John sciogliere la band. Anche George Harrison aveva sempre più voglia di essere importante nella composizione dei brani, tutti questi fattori portavano come detto a avere una band spaccata, e come tale decisero di spaccare anche i due precedenti lavori.
Se i due dischi precedenti avevano portato il concetto di album a qualcosa di più realistico rispetto al passato, se i suoni erano rivolti alla sperimentazione e esisteva un filo conduttore che legava i brani tra loro, il White Album era il rovescio della medaglia. Trenta brani sconnessi tra loro, trenta schegge impazzite che hanno vita propria, come detto create per conto proprio da ogni singolo componente e registrate in proprio. Un gruppo all'apice del proprio successo che decide di cambiare bruscamente strada per andate da tutt'altra parte.
Ma nonostante le premesse il disco è il concentrato di tutta l'arte e di tutta l'evoluzione musicale che i Fab Four hanno avuto nel corso degli anni. Brani come Back In The Ussr, Dear Prudence, Ob-la-di Ob-la-da, Blackbird, Sexy Sadie, Helter Skelter, Revolution n.1 sono da considerare tra i brani più importanti della sconfinata produzione Beatlesiana. Ma forse l'apice viene toccato con While My Guitar Gently Weeps composta e suonata da George Harrison con alla chitarra solista un Eric Clapton, canzone che rappresenta appieno la situazione interna alla band, in cui si preferiva suonare con altri musicisti invece che con i compagni di una vita. L'unica vera critica che può essere mossa all'album bianco è l'eccessiva lunghezza, in cui i Beatles hanno infilato dentro tutto il materiale che avevano, ma anche questo può essere considerato nel concetto di cambiamento rispetto al passato. Così come anche la copertina, un bianco totale che si va a scontrare con i colori e le citazioni presenti nelle copertine dei dischi che lo avevano preceduto.

Se Sgt Pepper è da più parti riconosciuto come il più grande disco della storia della musica, questo White Album è un sunto di una carriera vissuto al massimo livello sempre. Il titolo sarebbe potuto essere tranquillamente “Come distruggiamo Sgt Pepper e comunque facciamo un capolavoro”, ma per semplicità hanno voluto riassumere questa opera omnia con il titolo forse che più racchiude tutto, The Beatles.

giovedì 23 gennaio 2014

Recensione Zen Circus - Canzoni Contro La Natura


Dopo essersi presi un anno sabbatico, il 2013, ecco tornare con un nuovo disco gli Zen Circus. Ottavo disco in studio per la band pisana e terzo completamente in italiano, dopo gli ottimi Andate Tutti Affanculo e Nati Per Subire.




Canzoni Contro La Natura arriva a tre anni di distanza da Nati Per Subire, ma soprattutto dopo il 2013 che come detto è stato un anno di pausa per la band, ma non per i singoli componenti. E mentre Ufo girava per l'Italia a dilettarsi come DJ, Karim Qqru e Appino hanno dato alle stampe i loro primi lavori paralleli, La Notte Dei Lunghi Coltelli per il batterista, ma soprattutto Appino che con il suo Il Testamento si è addirittura aggiudicato la targa Tenco come miglior opera prima.

La prima cosa che si nota dall'ascolto di questo nuovo album, è che ormai gli Zen Circus sono diventati grandi. La metamorfosi che ha preso il via con Andate Tutti Affanculo è completa, e la band pisana si trova probabilmente nel punto più alto della sua carriera.

Gli Zen da quando hanno iniziato a cantare in italiano, hanno tirato fuori tutto il loro lato nazional-popolare. Ma non nell'accezione negativa del termine. Hanno iniziato a cantare del nostro paese, e in particolar modo di una generazione che sembra essere allo sbando, senza sapere quello che ha e quello che vuole. Ma non si sono mai eretti a guida spirituale di una generazione come in passato è accaduto ad altre band. Loro si sono limitati ad osservare e cantare soprattutto i lati negativi di questi giovani italiani.





E non fa eccezione questo nuovo lavoro della band pisana. Le canzoni di questo album sono si contro la natura, ma contro la natura umana. Quella natura umana ormai deviata con comportamenti e modi di fare tipici del nostro Bel Paese. Già dai due singoli, Viva e Postumia, la via degli Zen Circus è parsa subito molto chiara. La falsariga è quella dei precedenti due lavori, si parla dell'Italia di oggi, con tutte le sue contraddizioni. E proprio Viva è un inno al qualunquismo, in cui tutto è da esaltare ( dal Duce alla Fica ) in pieno stile italico. Ma c'è anche la crisi e i giovani che non hanno prospettive ( Postumia, Vai Vai Vai, No Way ), così come ovviamente si parla anche della Natura, quella con la N maiuscola, quella che fa paura ( Canzone Contro La Natura ) e come in tutti i dischi degli Zen anche Dio è al centro dell'attenzione e nella riuscitissima ballata Albero Di Tiglio, Appino e soci si domandano come sarebbe se Dio invece che forma umana avesse quella di un albero.

Ma essendo come detto nazional-popolari non mancano i riferimenti alla nostra musica e cultura. Si va da Ungaretti a De André ( L'Anarchico e Il Generale ), ai grillini e Ligabue ( Viva ) fino a richiami di Rino Gaetano.





Gli Zen Circus sfornano un altro lavoro all'altezza delle aspettative, che magari non accontenterà tutti i loro fans, viste anche alcune scelte musicali azzardate, un disco in cui è difficile riconoscere troppe tracce alla loro maniera, ma che come detto risulta essere molto più adulto e maturo. Un disco che serve a ricordare, se ce ne fosse bisogno, che gli Zen Circus sono tra le migliori realtà musicali italiane. 

mercoledì 22 gennaio 2014

Into The Wild - Colonna Sonora


Vagare per le terre selvagge. Vivere fuggendo dal capitalismo e dal benessere. È quello che fa Christopher McCandless, viaggiare per gli Stati Uniti vivendo di quel che riesce a trovare, più che altro sopravvivendo. Fino a che il suo viaggio non arriva a destinazione, in quell'Alaska che per lui rappresenta lo stato selvaggio per eccellenza, tale e quale a come dovrebbe essere la vita di un uomo.
Sean Penn prende spunto dal diario di Christopher per realizzare un film magnifico sul rapporto tra l'uomo e la natura, un film in cui sono le immagini a farla da padrone, con scenari mozzafiato e indimenticabili. E Sean Penn sa benissimo che per rendere nel migliore dei modi queste immagini anche la musica deve essere molto evocativa, così affida la colonna sonora di Into The Wild a Eddie Vedder.
Il leader dei Pearl Jam è alla prima vera prova da solo, senza il supporto della sua band, e armandosi di chitarra e ukulele scrive le musiche per quello che finora è l'ultima opera di Sean Penn come regista.
Eddie Vedder si cala alla perfezione nella parte, capendo appieno quali sono i suoni adatti per le immagini che passano sullo schermo, e complice anche la sua propensione per le ballate, come già dimostrato con i Pearl Jam, realizza quello che a tutti gli effetti si può definire un disco folk, totalmente distante dalla sua carriera con la band di Seattle.
Si parla di libertà, di solitudine, di una società che non ci appartiene, il tutto miscelato con note che al solo ascoltarle ci riportano lungo i percorsi di McCandless. Brani come Hard Sun, Society, Rise ci fanno conoscere un Vedder molto più intimo e introspettivo, un lato di se che ogni tanto faceva capolino nei brani dei PJ, ma che prendono il controllo totale del disco, per portarci nelle terre selvagge insieme al protagonista del film.

lunedì 20 gennaio 2014

Recensione Ushas - Verso Est


La tradizione Hard Rock in Italia non è mai stata il nostro fiore all'occhiello. Ci siamo dati da fare con altri generi nel corso degli anni, Prog su tutti, ma l'Hard Rock non è mai stato il nostro forte. Cantato in italiano poi non ne parliamo neanche, sarebbe come vagare per delle lande desolate. Però per ogni regola possono esistere delle eccezioni, e gli Ushas rientrano tra queste.


Gli Ushas nascono negli ormai lontani anni '90 ma solo nel 2013 realizzano il loro primo album. Vuoi per la spinta ricevuta dall'aver vinto un contest per band emergenti, decidono di mettere su disco le loro composizioni ormai suonate da anni dal vivo.
Venendo da anni e anni di attività live nei maggiori locali della capitale, la prima cosa che balza subito all'orecchio di chi ascolta è l'affiatamento della band. Non sbagliano un'entrata, non sbagliano un tempo, il tutto sintomo di un gruppo rodato sul campo.
Quello che gli Ushas ci fanno ascoltare è un Hard Rock di vecchio stampo, di zeppeliniana memoria, e come gli Zeppelin lo sguardo è rivolto a Oriente, ai suoi suoni e alla sua cultura. Già il nome Ushas è preso dalla Dea dell'aurora nella tradizione indiana dei Veda ( grazie alla bio della band! ) così come il titolo Verso Est ci riporta all'India, così come i suoni iniziali di La Via Della Seta o come le parole di Dai Tetti Di Gaden.
Uno dei punti focali dell'album è la scelta della band di cantare in italiano, un genere che per definizione non è molto adatto alla nostra lingua. Cosa che però viene smentita dalla band romana, che dimostra che con la scelta giusta delle parole nulla è precluso.



In conclusione si può dire che gli Ushas non inventano nulla di nuovo ma ripropongono un tipo di musica che da quarant'anni in tanti hanno già proposto. Il punto principale è che loro lo fanno bene. Il disco è suonato egregiamente, senza un minimo punto debole, in cui tutti e quattro i componenti della band sanno quello che devono fare e lo fanno alla grande.


Tracklist :
1. Fuorilegge
2. Sangue E Carne
3. Io Non Sono Qui
4. La Via Della Seta
5. Verso Est
6. Shri Heruka
7. Dai Tetti Di Gaden
8. Desperados
9. Yama
10. Maledetta Notte

mercoledì 15 gennaio 2014

Recensione Simon & Garfunkel - Bridge Over Troubled Water


La fine di un sodalizio artistico può essere paragonato alla fine di un amore. E come tale lascia strascichi nella vita di chi è coinvolto. Quello che ci hanno lasciato Simon & Garfunkel dalla fine della loro storia ( artistica si intende ) è Bridge Over Troubled Water. Forse uno delle migliori eredità mai lasciate da una band per chiudere la loro carriera insieme.
Ma questo disco oltre a segnare la fine del duo, segna anche la fine di un'epoca. Arrivano al capolinea anche gli anni '60, e con loro il folk inteso in una certa maniera. Alla maniera pura, senza intromissioni di altro genere. E se nel 1965 Bob Dylan con la sua elettrica a Newport aveva fatto imboccare il viale del tramonto a questo tipo di Folk, Simon & Garfunkel con questo loro ultimo lavoro segnarono la parola fine, aprendo di fatto gli anni '70 fatti di contaminazioni e intrecci tra generi.
Paul Simon e Art Garfunkel erano ai ferri corti ormai da tempo. Simon era la vera mente del duo, ma era convinto di non veder riconosciuti i suoi meriti. Lui era l'autore, il chitarrista mentre secondo lui Garfunkel metteva solo a disposizione la sua splendida voce per l'esecuzione. I due praticamente si ignoravano, ma decisero comunque di registrare questo ultimo lavoro. E tirarono fuori il miglior lavoro della loro carriera insieme.
La titletrack è una ballata per voce e chitarra che rapisce per il suo testo che è un elogio all'amicizia, quella vera, che è da subito inserita tra i classici della band. Così come la spinta emotiva è fondamentale per The Boxer, ballata su un uomo in rovina. Ma il classicismo si ferma qui, perché il disco è zeppo di suoni nuovi per i due. Cecilia e Il Condor Pasa hanno ritmi esotici, che fanno notare la passione per Simon verso i suoni che vengono da lontano, passione che uscirà completamente fuori con i suoi lavori da solista. Il resto dell'album è un trattato di come si dovrebbe fare musica pop. L'anima del disco è attraversata dallo spirito dei Beatles, con alcune canzoni che fanno pensare subito ai Fab Four, ma ampliate dalle armonie vocali che i due newyorkesi sapevano creare.


Il testamento di una band, di due uomini che non si ritroveranno mai a livello umano, anche se ogni tanto tornano sul palco per deliziare i loro fan con la loro arte ( il live a Central Park su tutto ). Da qui in poi Simon avrà una carriera splendente come solista, dimostrando che forse aveva ragione a pensare di avere la maggior parte dei meriti, mentre Garfunkel avrà un futuro abbastanza trascurabile. Quello che resta è uno dei più grandi dischi pop di sempre, che dovrebbe essere da guida anche per chi suona musica leggera a più di quarant'anni di distanza.

domenica 12 gennaio 2014

A Tutto Live


Qual'è la differenza principale tra cinema, letteratura e musica? Un libro o un film sono sempre quelli, li puoi vedere o leggere all'infinito, e per quanto belli siano, non cambiano mai. La musica invece cambia, perché è in possesso di una dimensione ulteriore rispetto alle altri due arti. Il live. Si puoi ascoltare un disco un milione di volte, poi magari lo senti suonato dal vivo e risulterà sconvolto in tutta la sua essenza.
I concerti sono ormai la parte fondamentale della discografia mondiale, sono l'ingranaggio che fa girare un meccanismo che se vivesse solo di album si incepperebbe presto. E di concerti memorabili ce ne sono stati una valanga. E molti di questi sono stati impressi per sempre in album indimenticabili.
Oggi farò una panoramica tra quelli che considero i dieci album migliori dal vivo, per la precisione saranno dieci +1. Saranno presi in considerazione solo pubblicazioni ufficiali, quindi niente Bootleg, niente registrazioni varie, niente video live messi in rete, ma solo dischi ufficiali, altrimenti la lista sarebbe stata infinita.

Partiamo con il +1, una menzione speciale. I Pearl Jam ormai da oltre un decennio registrano e rendono disponibili su disco tutti i loro concerti. Trattandosi di una collezione di circa quattrocento dischi fare una scelta sarebbe assolutamente impossibile, quindi li prendiamo tutti senza far distinzioni.

E ora la classifica vera e propria.

10.Opera Buffa – Francesco Guccini

In Italia la tradizione di dischi dal vivo non è esaltante. Soprattutto negli ultimi anni vengono considerati più un qualcosa che serve a non far scemare la notorietà di un artista piuttosto che dei lavori importanti a tutti gli effetti. Questo disco di Guccini è l'antitesi del disco dal vivo. Sono serate con gli amici in osteria registrate e messe su disco. Ma è utilissimo per capire chi è veramente il cantautore modenese, un artista impegnato ma anche scanzonato, che non si risparmia mai quando c'è da far divertire, mettendo in musica tutto il suo essere un istrione. 
 
9.S & M – Metallica

Prima dei Metallica in molti avevano provato a unire una band rock con un'orchestra sinfonica. Ci avevano provato i Deep Purple, i Kiss, i Queen e tanti altri, ma poche volte il risultato è stato così perfetto come nel caso dei Metallica. Grazie soprattutto all'arrangiamento di un grandissimo come Michael Kamen le due entità che si univano sul palco del teatro dell'opera di San Francisco riescono a miscelarsi alla perfezione dando una nuova linfa ai grandi classici della band Metal. Questo disco segna per certi versi la fine del periodo di massimo splendore artistico per i Metallica, che da lì a poco inizieranno una discesa che durerà parecchio tempo.


8.Unplugged in New York - Nirvana

Mtv aveva avuto una brillante idea con questi show in cui vari artisti reinterpretavano i loro successi in versione acustica. Si sono cimentati in questa prova i maggiori artisti della musica rock, da ricordare su tutti gli Unplugged di Clapton e Bob Dylan. Ma quando a New York fu la volta della band di Kurt Cobain si capì che era qualcosa di diverso. Un'atmosfera quasi mistica e dall'incredibile impatto emotivo. Dal punto di vista personale uno dei dischi più toccanti, con il merito principale che va alla grandissima prova di Kurt Cobain che da lì a poco ci avrebbe lasciato. 
 
7.Live At Sin-è – Jeff Buckley

Un altro artista che ci ha lasciato troppo presto, che si fece conoscere proprio con questo album dal vivo. La prima pubblicazione ufficiale di Jeff è proprio questo concerto, in cui si inizia a conoscere quella che sarà una delle voci più intense della fine del secolo scorso. E ci fa conoscere quelli che saranno i successi presenti poi sul disco dell'anno successivo, Grace. Mojo Pin, Grace e poi le cover Just Like A Woman ( Bob Dylan ) e Hallelujah ( Leonard Cohen ) di un elevato impatto emotivo.

6.The Concert in Central Park – Simon & Garfunkel

La coppia che scoppia e si ritrova. Questo potrebbe essere il sottotitolo di questo album. Simon e Garfunkel si erano lasciati a malo modo nel 1972 e a distanza di quasi dieci anni decidono di riunirsi per un solo concerto, appunto a Central Park. Il pubblico era di circa mezzo milione di persone, accorsi ad ascoltare i grandi successi del duo. Anche se i due artisti quasi si ignorarono sul palco, le loro doti artistiche erano talmente elevate da tirar fuori un concerto praticamente perfetto.

5.Live At The Apollo – James Brown

Quando si parla di esperienze al limite del mistico sul palco, bisognerebbe sempre citare James Brown. Il padrino dei Soul era solito essere una furia sul palco. Regalava memorabili esibizioni, in cui cantava, ballava e teneva in pugno la folla come pochi hanno mai saputo fare nella storia. Ed erano davvero una sorta di liturgia i suoi concerti. E questo spirito è reso perfettamente in questo album del 1962, registrato proprio nel periodo di massimo splendore del cantante americano.

4.Made In Japan – Deep Purple

Tecnicamente parlando questo è forse il miglior album dal vivo di sempre. Registrato durante la tournèe giapponese del 1972. I pezzi proposti sono tra i più celebri della band britannica, ma sono suonati alla perfezione, senza una minima sbavatura che dal vivo può anche essere accettata. La versione di Smoke On The Water in questo album è forse più conosciuta della versione in studio, e rimangono celebri i giochi di voce e chitarra tra Gillian e Blackmore, in cui Ian con la voce replicava praticamente identiche le note suonate da Ritchie con la sua Stratocaster.

3.At Folsom Prison – Johnny Cash

Il disco che segnava il ritorno sulle scene del Man In Black. Un album dal vivo registrato nel carcere di massima sicurezza di Folsom, suonando per un pubblico che Cash sentiva molto vicino. Un JohnnyCash in grande spolvero che ripropone i suoi grandi classici, affiancato come sempre dall'amata June Carter. Uno dei dischi più venduti di sempre, e mai tante vendite sono state così meritate.

2.Live At Wembley '86 – Queen

Una delle ultime esibizioni dal vivo dei Queen, davanti a un Wembley Stadium più che gremito. E tutta la forza di Freddie Mercury che prende la scena da subito e non la lascia più. Il pubblico estasiato non fa che aiutare la riuscita di questo live. Anche qui troviamo tutti i classici della band inglese, riproposti nella loro epicità e con una voglia che li ha sempre contraddistinti nelle esibizioni pubbliche.

1.Live At Leeds – The Who

Qui ci troviamo di fronte all'unico live ufficiale con la formazione originale della band inglese. Era da poco uscito Tommy e il tour era incentrato su quell'album che veniva proposto per intero nella seconda parte del concerto. Una delle pochissime volte che è stata presa l'anima di una band e incisa su disco. Tutta la forza e la violenza dei live degli Who la ritroviamo in questo disco. Da più parti considerato il miglior live di sempre. 

 

sabato 11 gennaio 2014

Ricordando Faber, quindici anni dopo


De André non è stato mai di moda. E infatti la moda, effimera per definizione, passa. Le canzoni di Fabrizio restano” - Nicola Piovani



Milano, 11 Gennaio 1999 h 02.30



Quindici anni fa si spegneva in un ospedale di Milano nel cuore della notte Fabrizio De André. Ce lo ha portato via un tumore ai polmoni. Ricordo ancora il momento in cui al TG il giorno successivo diedero la notizia, e ricordo alla perfezione il dolore che mi provocò quella notizia. All'epoca ero un giovane adolescente che aveva appena iniziato a scoprire questo meraviglioso artista. La colpa della mia scoperta di De André è da dare a mia sorella. Tra le sue musicassette fatte in casa ne aveva una di De Andrè, da un lato c'era Rimini e dall'altro Vol. 3. Quella cassetta l'avrò ascoltata non so quante volte, difatti quei due album saranno per sempre tra i miei preferiti.

Ma Faber è uno di quegli artisti che devono essere scoperti piano piano, perché ogni volta che si ascolta qualcosa che non si conosce è davvero una nuova scoperta, ed ogni volta è un nuovo amore.

È stato l'artista italiano che ha stravolto la canzone in Italia per come la si conosceva prima di lui, e dopo di lui tutti hanno dovuto confrontarsi con la sua arte, confronto spesso improponibile.

Su De André in questi quindici anni si è detto e scritto tutto, a volte anche troppo, per un artista che ha veramente elevato la musica a poesia. Infatti non mi dilungherò più di tanto a raccontarvi la sua vita e le sue opere. Man mano che conoscevo sempre di più la sua discografia mi stupivo di come Faber avesse varie facce, e ogni disco poteva contenere anche tutte le sue varie anime, che si mescolavano tra loro per creare un qualcosa di mai visto prima, e neanche dopo.

Con tutta l'umiltà possibile vorrei dare un'occhiata a queste sue facce, per cercare di farvi capire cosa è stato per me Fabrizio De André.



  • L'innamorato

Ti ho trovata lungo il fiume che suonavi una foglia di fiore che cantavi parole leggere, parole d'amore ho assaggiato le tue labbra di miele rosso rosso ti ho detto dammi quello che vuoi, io quel che posso.” - Se Ti Tagliassero A Pezzetti

Si l'innamorato, perché tra le tanti doti di Faber c'è stata quella di parlare e scrivere d'amore come pochi hanno fatto nella loro carriera. Ma l'amore di Faber non è mai quello cantato in Italia, dove l'amore era sempre pieno di fiori e colori, il suo è sempre un amore sofferto, dolorante, mai gioioso. Ma proprio per questo è molto più vero rispetto a quello sentito da altri artisti. Si parla spesso di amori perduti, o di amori diversi, fu tra i primi a parlare di omosessuali senza preconcetti raccontando anche i loro di amori ( Andrea ). e questo ci porta alla sua altra faccia.



  • Il Diverso

Per chi viaggia in direzione ostinata e contraria, col suo marchio speciale di speciale disperazione” - Smisurata Preghiera



Faber era diverso da tutti gli altri artisti italiani. Era una diversità dovuta sia alla sua indole, sia a quello che scriveva. È sempre stato vicino alle minoranze, quelle che nessuno osava citare nelle proprie opere, abbiamo canzoni che parlano di Rom ( Khorakhané ) , di indiani d'America ( Fiume Sand Creek ), di transessuali ( Princesa ), di prostitute ( Via Del Campo ), come detto di omosessuali tutti argomenti che non venivano toccati da altri artisti di un certo calibro. Ma lui era diverso proprio di indole. Faber è quello che per i primi dieci anni di carriera non ha fatto neanche un concerto, vuoi per l'eccessiva timidezza, vuoi per un problema ad un occhio di cui si vergognava. È lo stesso che scrisse uno dei suoi massimi capolavori, Amico Fragile, dopo aver avuto una discussione con dei personaggi altolocati perché volevano a tutti i costi che cantasse una canzone, quando lui non ne aveva voglia.



  • Il Popolare

Una gamba qua, una gamba là, gonfi di vino quattro pensionati mezzo avvelenati al tavolino li troverai là, col tempo che fa, estate e inverno a stratracannare a stramaledire le donne, il tempo ed il governo. “ - La Città Vecchia

Nonostante venisse da una famiglia agiata, il padre vicesindaco di Genova, De André si è sempre considerato un uomo del popolo. E in tutte le sue opere si sente questa sua vicinanza alla gente. Una delle capacità maggiori di Faber era il saper descrivere e raccontare le persone. Persone vere o create ad arte, i suoi personaggi restano nella memoria con una forza dirompente. Vuoi che siano i personaggi che riposano sulla collina ( Non Al Denaro Non All'Amore Né Al Cielo ), o le persone di tutti i giorni, quelli che si possono incontrare per la strada, di cui ha saputo cantare in modo superlativo.

Senza mai dimenticare tutta la sua produzione in dialetto, Cruezà De Ma su tutti, in cui questa sua indole prendeva ancora più il sopravvento.



  • Lo Spirituale

Alcuni lo dissero santo, per altri ebbe meno virtù, si faceva chiamare Gesù.” - Si Chiamava Gesù

La religione è sempre stato uno dei temi più controversi nella sua produzione artistica. Fin dal principio si è letta una forte critica, non tanto a Dio o alla sua esistenza, ma più che altro all'uso strumentale che ne veniva fatto sia dai laici sia dagli ecclesiastici. Non si è mai dichiarato credente, ma ha spesso toccato il tema, dimostrando un evoluzione nel corso degli anni. La Buona Novella è la sublimazione del primo De André in cui fornisce una sua rilettura del vangelo proponendo, concentrandosi sulla Madonna, mostrandola umana e non divina come nella Bibbia.

Ma dopo il 1979 e il rapimento subito in Sardegna da parte dell'Anonima, viene quasi completamente abbandonato il tema religioso. Dichiarò che durante la prigionia lo aiutarono la fede negli uomini, visto che considera Dio un invenzione umana.



  • L'onirico

E quando avevo duecento lune e forse qualcuna è di troppo rubai il primo cavallo e mi fecero uomo cambiai il mio nome in "Coda di lupo" cambiai il mio pony con un cavallo muto” - Coda Di Lupo

Questa è forse l'anima preponderante di De André. Quella faccia divisa tra sogno e realtà, capace di creare poesie incredibili. Tanti sono stati i cantautori che hanno raccontato la realtà, forse anche meglio di Faber. Ma nessuno riusciva a portare la realtà su un altro livello, un livello quasi magico, in cui si incontra con il sogno. I suoi brani più conosciuti sono tutti qua, Il Pescatore come Bocca Di Rosa, La Guerra Di Piero e La Canzone Di Marinella. È in questo ambito che De André era superiore a tutti gli altri. Era capace di far sognare solamente ascoltando una canzone.



  • L'Impegnato

Anche se il nostro maggio ha fatto a meno del vostro coraggio, se la paura di guardare vi ha fatto chinare il mento, se il fuoco ha risparmiato le vostre Millecento, anche se voi vi credete assolti siete lo stesso coinvolti. “ - Canzone Del Maggio

Come tutti i cantautori della sua stessa generazione, visto anche il contesto storico in cui ha operato, De André non poteva esimersi dal cantare la protesta, dovuta anche alle sue idee di anarchia. Ideali anarchici che lo portarono anche ad essere controllato per dieci anni dai servizi segreti, che lo ritenevano pericolo e sovversivo.

Storia Di Un Impiegato è il punto massimo di questa sua contestazione, con la sua visione del '68, ma la protesta di Faber non si ferma a quel disco. La domenica Delle Salme è un concentrato di tutta questa sua protesta, in cui non viene risparmiato nessuno, nemmeno i suoi colleghi.

Ma l'impegno politico è innato in chi ha da sempre cantato e descritto gli ultimi, i reietti, quindi non poteva essere che De André non mostrasse nettamente questa sua facciata.



  • Il Guascone

E' mai possibile o porco di un cane che le avventure in codesto reame debban risolversi tutte con grandi puttane “ - Carlo Martello Ritorna Dalla Battaglia Di Poitiers

Questa è la parte di De André che viene spesso scordata o messa in secondo piano. In mezzo a tutti le opere elevate che ci ha regalato non ha mai dimenticato di prendere il tutto alla leggera, senza la pretesa di essere un poeta o un possessore della verità assoluta. Ed è per questo che non si è mai tirato indietro quando c'era da scherzare, anche nelle canzoni. Il punto massimo è sicuramente Carlo Martello in cui però c'è lo zampino dell'amico di sempre Paolo Villaggio. Ma anche brani come Il Testamento, Il Gorilla, Si Fosse Foco, La Ballata Dell'Amore Cieco ci regalano degli spaccati di un Faber giocoso, che non si prendeva sul serio ed era capace anche di strappare dei sorrisi.




Mi sono dilungato fin troppo, ma per un artista, un poeta, un'icona della nostra cultura del novecento era doveroso parlarne abbastanza ampiamente. Tutte queste parole per ricordare quella maledetta notte di quindici anni fa che ce lo portò via. Lo portò via a chi lo seguiva da una vita, a chi lo aveva appena sfiorato ( come il sottoscritto ) e a chi lo sta conoscendo solo ora dopo la sua morte. Ci ha lasciato in eredità opera favolose, da cui possiamo attingere a piene mani per tutti i giorni che ci restano, ma l'unica recriminazione è che è andato via troppo presto, quando avrebbe potuto regalarci ancora tanto.



Grazie di tutto Faber.