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sabato 31 maggio 2014

Recensione Choriachi - S.U.F.F.E.R.

S.U.F.F.E.R. è la seconda prova in studio per i Choriachi, band bolognese che sta cercando di emergere tra le migliaia di band che abbiamo in questo momento nel nostro paese. E ascoltandolo neanche si direbbe che si tratta di un disco che viene dall'Italia.
Cupezza e oscurità del Doom unite alla potenza dello Stoner il tutto in lunghe cavalcate dal tono acido e a tratti psichedelico. Questa è la ricetta dei Choriachi. Il tutto condito da qualche divagazione nell'Heavy più classico e con la netta sensazione che questi quattro ragazzi sanno gestire alla perfezione diversi tipi di suoni. Il tutto sorretto dall'ottima prova alla voce del frontman Mpfm che si dimostra abile e capace a gestire diversi tipi di registri vocali.
L'apertura con Marijuanaut è un omaggio agli Sleep di Dragonaut ed è una lunga ( oltre dieci minuti ) dimostrazione di quanto detto in precedenza, in cui la band infila dentro tutto quello di cui sono capaci, compreso un ottimo assolo nel finale del brano. E il percorso del disco è quello anche se ogni tanto pare di udire in lontananza la chitarra di Iommi dei Black Sabbath ( Pentagruelion ) o dei richiami allo stoner americano ben più che accennati ( Young Wolves & Old Mammothes ).


alla fine dei conti questo S.U.F.F.E.R si rivela un lavoro pensato benissimo ed eseguito anche meglio. Un lavoro che farà rizzare più di qualche orecchio a chi vive di questo genere di musica, ma che farà contenti anche gli ascoltatori saltuari che troveranno nel disco sicuramente qualcosa da apprezzare.

Tracklist:
Marijuanaut ( Part 1&2 )
Our Vice Is A Locked Room
Red Capricorn
Young Wolves & Old Mammothes
Pentagruelion
Birkat Habayit

giovedì 29 maggio 2014

Recensione Bud Spencer Blues Explosion - BSB3

Il singolo Duel aveva portato le mie aspettative personali per questo BSB3 a livelli molto alti. E ora che arriva questo loro terzo lavoro in studio mi rendo conto che le attenzioni che avevo dedicato al singolo erano più che meritate.
Dieci nuovi brani a distanza di tre anni dall'ultimo Do It, ci permettono di ascoltare il duo romano in grandissima forma, nonostante alcuni cambiamenti non da poco nella lavorazione del disco. Chi li ha visti dal vivo conosce già la loro potenza sul palco, ed è quello che hanno voluto proporre in questo album. Hanno messo su disco direttamente le idee che avevano in testa, senza troppo lavoro sopra e senza sovraincisioni, il che rende i brani ancor più rudi rispetto al passato.
Un disco solido e ruvido, suonato magistralmente, in cui emerge anche una notevole maturazione a livello compositivo, con i brani che risultano molto meglio legati tra loro, in cui il virtuosismo dei due viene messo al completo servizio del brano.
Ci si allontana un pochino dal classico Blues-Rock che aveva fatto la fortuna della band con i primi due dischi, ma il risultato non cambia. Si vanno a cercare strade diverse, c'è molta più acidità nella chitarra, si prova un intermezzo quasi pop ( Miracoli ), il ritmo si fa incalzante nella metà del disco con pezzi abbastanza classici per il duo ( No Soul, Croce ), si passa per un pezzo strumentale e tenebroso ( Camion ) per chiudere con un finale pensoso e malinconico ( Inferno Personale, Troppo Tardi ). Ma sono i primi tre pezzi di questo BSB3 a fare la vera differenza. Duel, Hey Man e Mama sono tre sunti della musica dei BSBE. Assoli che tolgono il fiato, andatura in crescendo fino alle esplosioni finali e una capacità di farti saltare sulla sedia anche se non volessi.


Anche se non c'era bisogno i Bud Spencer Blues Explosion dimostrano ancora una volta di essere tra le migliori band italiane e non solo. BSB3 è la dimostrazione che le capacità unite alla voglia di fare qualcosa di buono ti portano a produrre musica di altissimo livello, e trattandosi ormai del terzo indizio direi che abbiamo ben più di una prova.


Tracklist

1 Duel
2 Hey Man
3 Mama
4 Miracoli
5 No Soul
6 Croce
7 Camion
8 Rubik
9 Inferno Personale
10 Troppo Tardi

lunedì 26 maggio 2014

Recensione Pierpaolo Capovilla - Obtorto Collo

Obtorto Collo è un locuzione latina utilizzata per indicare qualcosa che accettiamo nostro malgrado. Ed è un tema molto ricorrente nei testi di Pierpaolo Capovilla, l'accettazione di una natura umana quasi sempre deludente. E in questo suo primo lavoro da solista questo sentimento è ancor più accentuato rispetto ai precedenti lavori del cantante veneziano, che si presenta per la prima volta senza le proprie band alle spalle ma si mette in proprio.
Questa assenza dei compagni di avventura gli permette di esprimersi in maniera del tutto diversa rispetto a quello che siamo abituati a sentire da lui. Bisogna dimenticarsi di chi è e del suo background musicale e ascoltare questo disco come una vera e propria opera prima. È un disco parlato più che cantato, che unito al suono scelto da Capovilla, lo fa risultare un disco molto vicino agli chansonnier francesi come idea ma ovviamente ringiovanito e più attuale a livello musicale. Abbiamo aperture al pop e un tocco di elettronica, l'indie che ha reso celebre Capovilla in tutta Italia viene totalmente accantonato e il vero protagonista risulta essere lui.
Il leader del Teatro Degli Orrori punta tutto sulle sue doti più riconosciute, il suo carisma, la sua interpretazione dei brani e i suoi testi. E anche qui troviamo una sorta di cambiamento rispetto al passato. Abbiamo sempre storie di personaggi ai margini ( Irene, Ottantadue Ore ) ma c'è una maggiore concentrazione sull'animo umano, probabilmente proprio quello di Capovilla, che ne fanno un'opera con lunghi tratti autobiografici. E per andare a colpire nel fondo l'animo non bastano le parole, ma è importante anche il modo in cui vengono dette, ed è qui che eccelle il cantante veneziano. Interpretazioni drammatiche e sofferte sono la linea portante di questo disco, in cui a Capovilla basta porre l'accento su una singola parola per dare un senso totalmente diverso al brano.


Se voleva staccarsi un po' della solita musica per cui lo conosciamo c'è riuscito alla perfezione. Il risultato è un disco difficile e crudo, ma anche intensissimo e toccante, come nel solito stile di Capovilla. Forse i fans del Teatro Degli Orrori resteranno un po' interdetti nell'ascoltarlo, ma se dopo il primo ascolto andranno avanti scopriranno una piccola opera d'arte che offre spunti in ogni singolo momento.  

venerdì 23 maggio 2014

Recensione Area765 - Altro Da Fare

C'erano una volta i Ratti Della Sabina, band reatina dalla spiccata attitudine folk. Nel 2011 quella fantastica avventura terminò e i reduci di quel gruppo formarono gli Area765 che nel 2012 pubblicarono il loro primo album Volume Uno di stampo decisamente più rock rispetto al loro passato con il vecchio nome.
Per chi vi scrive risulterà difficilissimo risultare imparziale in qualsiasi giudizio su questa band, visto che nel periodo come Ratti Della Sabina ho avuto modo di assistere a circa 15/20 loro esibizioni dal vivo, e visto che la loro musica mi ha affiancato per diversi anni della mia vita. E ritrovarli ora con questo loro “secondo” disco è come ritrovare un vecchio amico.
Secondo disco tra virgolette perché di un disco vero e proprio non si tratta. Diciotto brani di cui due soli inediti, e il resto preso dal precedente album della band e dagli ultimi due dischi dei Ratti Della Sabina. E se come detto Volume Uno era il primo vero e proprio disco rock della band, qui viene preso e risuonato in acustico, così come i brani della vecchia avventura. E il tutto suona alla grande, visto che sono brani che vengono maneggiati dalla band da quasi un decennio. Si sente anche che in un ambito molto più vicino al folk delle origini gli Area765 si trovano a loro agio e sanno alla perfezione come trattare i brani. Per quanto riguarda i due inediti ( Altro Da Fare e L'Ultimo Tango ) sembrano essere il ponte ideale che collega il passato e il presente.


Una sorta di operazione nostalgica che non può che far piacere ai fans più accaniti ( compreso il sottoscritto ) sia chi magari ancora non conosce la band e ha possibilità di andare a indagare anche sul passato della band. Aspettando il prossimo lavoro di inediti con trepidazione.  

mercoledì 21 maggio 2014

Recensione Coldplay - Ghost Stories

Tre anni sono passati dalla pubblicazione di Mylo Xyloto, e ora ecco arrivare Ghost Stories sesto disco in studio per i Coldplay. Disco che arriva dopo le note vicende personali di Chris Martin ( la separazione dalla moglie Gwyneth Paltrow ).
La carriera dei Coldplay è stata un'ascesa continua dal punto di vista commerciale. A partire da quel capolavoro che è stato A Rush Of Blood To The Head la scalata non si è mai fermata, fino a portarli a essere una delle band simbolo della musica pop del nuovo millennio. Ma a fare da contraltare c'era la qualità dei dischi che piano piano si abbassava. E quest'ultimo Ghost Stories si presentava con non poco scetticismo da parte della critica. Ma spesso le aspettative non vengono rispettate.
Ghost Stories è frutto di un percorso musicale, e forse anche personale, che la band ha intrapreso negli ultimi tempi. Ci troviamo di fronte a un disco meno sfarzoso rispetto ai due precedenti lavori, ma che in un certo senso ricalcano lo stesso percorso. Ormai l'elettronica è entrata nelle corde dei Coldplay e questo disco non ne fa per nulla a meno, ma la utilizza in modo del tutto diverso. È un disco scarno e sommesso, forse anche più intimo, e che può suonare per lunghi tratti addirittura monotono per la linea costante che mantiene. L'unico picco è il singolo A Sky Full Of Stars che ricorda da vicino gli ultimi album della band, ma per il resto ci si discosta totalmente risultando anche molto meno pop rispetto al passato.


Ghost Stories è il classico disco che spaccherà in due tutti gli ascoltatori. Chi lo riterrà stupendo e chi dopo un primo ascolto lo lascerà a impolverare senza più toccarlo. La nota positiva è sicuramente il fatto che la band abbia voluto provare, e forse osare, a fare qualcosa di diverso, e per alcuni versi l'operazione è anche riuscita, ma resta da capire se si tratta di un caso isolato o se davvero la band ha ancora voglia di sperimentare qualcosa di nuovo. 

venerdì 16 maggio 2014

Recensione The Black Keys - Turn Blue

Il successo può dar fastidio. Ma può darlo molto più ai fans che alle band. Ci sono band che vorremmo rimanessero sempre nella loro nicchia e che siano solo nostre e di pochi altri. Poi però arriva la canzone che li consegna al mondo intero ( Lonely Boy in questo caso) e il fan si sente infastidito, in alcuni casi anche tradito. E l'accusa che viene più spesso rivolta è quella di essersi commercializzati.

Chi segue da anni i The Black Keys sa bene che la dote di creare singoli perfetti è tra le loro caratteristiche, e il successo non ha fatto altro che aumentare le accuse. E il primo singolo ( Fever ) estratto dal loro ottavo album Turn Blue non ha fatto altro che far drizzare le antenne a chi li accusava di essersi venduti al successo. I synth che prendevano il posto delle chitarre poi non aveva di certo fatto contenti i fans della prima ora. Ma mettendo il disco nel lettore e ascoltando il primo brano la maggior parte dei dubbi vengono spazzati via. Weight Of Love con i suoi quasi sette minuti, il suo incedere malinconico e il suo intro Pinkfloydiano tutto fanno pensare tranne a un gruppo che si sia commercializzato.


Ovviamente non mancano i soliti brani eletti a diventare dei singoli che passeranno a ripetizione, la già citata Fever ma anche Year In Review e Gotta Get Away, quest'ultima che è la più simile alla precedente produzione del duo dell'Ohio. Si perché il Blues-Rock che aveva caratterizzato i precedenti dischi quasi sparisce, risucchiato da una moltitudine di omaggio e celebrazioni, a ricordare le ispirazioni della band. Come detto si sentono i Pynk Floyd nell'intro di Weight Of Love, ci sono ricordi di un rock americano classico ( Bullet In The Brain ), in un paio di occasioni pare di cogliere un assolo che si ispira all'Hard Rock più famoso, Led Zeppelin su tutti ( Weight Of Love, It's Up ToYou Now ).



Questo Turn Blue è un disco difficile da collocare all'interno della produzione del duo americano. Ci si discosta molto dai precedenti lavori, senza per questo perdere la forza o la voglia di fare ottima musica. Risulta invece essere un disco intelligente e d'impatto, che nel corso del tempo verrà annoverato tra i migliori della band. 

giovedì 15 maggio 2014

Recensione Blondie - Ghosts Of Download

Debby Harry e Blondie festeggiano in questo 2014 i quarant'anni di carriera e lo fanno pubblicando un nuovo disco di inediti, Ghosts Of Download, primo lavoro in studio da Panic of Girls del 2011 e secondo lavoro negli ultimi dieci anni.


Prima di andare avanti con qualsiasi tipo di analisi o giudizio è necessaria una premessa. Chi scrive è innamorato alla follia di Debbie Harry e impazzirebbe per qualsiasi cosa facesse, fosse anche un disco di cover di canzoni neomelodiche, di conseguenza questa recensione potrebbe non essere del tutto imparziale.
Fatta la premessa si può iniziare. Messo su il disco la prima brutta sorpresa. Nell'iniziale Sugar On The Side sembrava che Shakira si fosse impossessata di Debbie Harry con tanto di rapper colombiani a collaborare e base elettronica dai toni esotici. Sensazione che si ripeterà un altro paio di volte all'interno del disco.


Ma tralasciando due o tre cadute che all'interno di un disco di sedici brani, di una band che ormai vive grazie al proprio nome e al proprio passato, ci possono anche stare. Il tema conduttore del disco è abbastanza semplice, con l'elettronica a farla da padrone con qualche divagazione tropicale, alcune dosi di dance e ogni tanto qualche chitarra che spunta per ricordare i bei tempi andati. Il tutto però condito dalla voce della Harry che ricorda ancora una volta di essere stata una delle figure femminili più prominenti della musica mondiale, anche se da ormai due decenni i suoni più vicini al punk che li avevano resi celebri sono completamente spariti.
Una menzione d'onore va per la cover di Relax dei Frankie Goes To Hollywood, che rivive in un modo abbastanza particolare con il ritornello abbastanza fedele all'originale, ma con le strofe con il solo piano e voce che sono veramente degne di nota.

martedì 13 maggio 2014

Recensione Mannarino - Al Monte

Terzo disco in studio per Alessandro Mannarino, il cantautore romano torna dopo tre anni da Supersantos. Il nuovo lavoro Al Monte è stato anticipato dal singolo Gli Animali.

Mannarino nell'ultimo lustro è stato tra gli artisti italiani che ha fatto la scalata più vertiginosa. Dalle serate al Rione Monti a Roma a essere uno degli artisti italiani più di successo del momento è stato un percorso abbastanza veloce. Bar Della Rabbia aveva stupito tutti e portato al grande pubblico questo menestrello dei giorni nostri.
Di solito se il secondo album deve essere la conferma del successo del debutto, con il terzo lavoro si devono cominciare a far vedere progressi e passi in avanti, magari prendendo anche qualche rischio. Rischi che Mannarino non prende, proponendo un disco in sicurezza, in cui il suo stile è inconfondibile.


Ma passi in avanti ce ne sono, soprattutto per quel che riguarda i testi, da sempre vero punto di forza del cantautore romano. È un disco molto più intimo rispetto ai precedenti. Raccontando sempre delle favole metropolitane, Mannarino si guarda dentro molto di più rispetto ai precedenti due lavori. E lo fa con ballate intense ( Scendi Giù, Al Monte e Le Stelle ) mescolate con brani dai suoni molto familiari per i suoi fan ( Malamor, Gli Animali ).


Un disco sicuramente buono, che si assesta alla perfezione nella discografia pubblicata finora da Mannarino. Un album che non farà gridare al capolavoro, ma che non scontenterà nessuno, anche se come detto si potrebbe cominciare a provare qualcosa di diverso rispetto a quello in cui già tutti sanno che sai farci. 

sabato 10 maggio 2014

Recensione The Horrors - Luminous

Quinto disco in studio per la band inglese The Horrors. Luminous arriva a distanza di tre anni dal precedente Skying del 2011 ed è stato anticipato dal singolo I See You.

La scalata verso le vette della musica alternativa britannica è iniziata circa un decennio fa, e forse ora si è giunti a destinazione. Già dal primo ascolto di I See You si era intuito che la rotta era quella giusta per gli Horrors. Per anni si è discusso sulla band, una delle più citazioniste sulla scena musicale internazionale. Non era chiaro se fossero veramente validi o se la montagna di citazioni inserite nei loro album offuscassero un po' il giudizio sul gruppo. Con questo Luminous ogni singolo dubbio viene dissipato da un album pazzesco. Gli Horrors ci portano su un altro mondo, con la loro musica che sembra venire dallo spazio, ed è un mondo colorato e luminoso ( come da titolo del disco appunto ).


Chitarre e synth che si mescolano alla perfezione, un sound molto più elettronico rispetto al passato, la psichedelia che pervade l'album dall'inizio alla fine. Questa è la ricetta di Luminous. I See You è un esplosione di tutto questo concentrato di elementi, ma anche il resto dell'album si mantiene su questi toni. E se anche le ballate ( Change Your Mind ) sono meravigliose, ecco che abbiamo tra le mani un gran disco.
Dieci anni e cinque album di evoluzione costante nella loro musica li ha portati a tirare fuori quello fino ad ora può essere tranquillamente definito come il loro miglior disco. E che dimostra che il pop non è solo musica usa e getta, ma che volendo può essere anche musica di altissimo livello.


venerdì 9 maggio 2014

Recensione The Whip Hand - Wavefold

Vengono dalla Puglia i The Whip Hand, trio al debutto con Wavefold. Debutto a cui arrivano forti della vittoria al Rock Contest di Controradio del 2013, e con l'inserimento da parte di Rockit tra le band nostrane da seguire in questo 2014.
E questa loro forza la dimostrano appieno in questo primo lavoro che, diciamolo subito, risulta essere un gran disco. Chitarre sferzanti a farla da padrone su atmosfere figlie della new wave e del post-punk. Un disco che scorre veloce e senza intoppi dall'inizio alla fine, senza grosse variazioni sul tema principale, ma eseguito magistralmente, senza lasciare nulla al caso.
Dopo l'Intro in crescendo il disco parte deciso e senza soste con Like Water e Try Sage che mantengono quei toni cupi che pervadono tutto il disco. Eleven è il primo singolo estratto dal disco e mantiene fisse le idee della band. Ascoltando il disco si possono notare subito le influenze della band, dai Cure ( Today ) ai Joy Division ( Il basso di Lost ). In chiusura A e Whenever You Want anche abbassando un po' i toni sono un ulteriore prova di valore del gruppo.

Wavefold sarà per per i The Whip Hand un trampolino di lancio per un futuro molto più che roseo, ma anche una pietra di paragone importante per tutti i lavori seguenti, perché se debutti così, è normale che le aspettative arrivino subito alle stelle. 


martedì 6 maggio 2014

Recensione Ben Harper - Childhood Home

Sul talento di Ben Harper le discussioni da fare sono veramente poche se non nulle. Ha dimostrato in ogni singola occasione di essere uno degli artisti migliori di questa generazione. E il nuovo progetto che lo vede protagonista, Childhood Home, ci concede ancora una volta un riscontro sulle sue capacità. È un viaggio a ritroso alle origini, alle influenze e ai valori che lo hanno portato a essere quello che è ora. E per marcare ancora di più questo percorso il disco è fatto con la collaborazione di mamma Ellen, presente sia in produzione che con la voce in diversi brani del disco.
Il risultato di questo viaggio nel passato è un disco fortemente folk, di quello americano che si faceva mezzo secolo fa, e sentendo Childhood Home si potrebbe credere anche che è stato realizzato all'epoca. Un disco che scorre tranquillo, senza accelerazioni ma con il suo passo. Un passo delicato e cadenzato, quasi monotono in un primo momento, ma che viene reso prezioso dalla voce e dal tocco delle corde che fa riconoscere subito Ben Harper.
Ed è forse proprio la classe dell'artista californiano a dare la spinta giusta a questo lavoro, che se fosse stato realizzato da qualcun altro probabilmente non avrebbe avuto lo stesso valore.



Sicuramente non si tratta di un album tra i migliori di Ben Harper ma è per certo uno dei più veri e intensi. Anche il duettare con la madre fa in modo che si vadano a toccare ambiti emotivi che magari se avesse fatto tutto da solo non avrebbero reso allo stesso modo.