Ci sono band che puntano all'estremo.
Vanno a cercare soluzioni stilistiche che cercano di lasciare a bocca
aperta, e che di solito sono apprezzate solo dai fan più accaniti e
da alcuni addetti ai lavori che con la sperimentazione a tutti i
costi sono felicissimi. Poi ci sono band che puntano sulla semplicità
e l'immediatezza della propria musica. Ecco, i GBU rientrano
nella seconda categoria.
Alibi
è un disco rock diretto che arriva subito a chi lo ascolta, che si
tratti di grandi consumatori di musica, sia che si tratti di
ascoltatori distratti. I secondi ci troveranno dei bei riff
orecchiabili con cui potranno divertirsi, mentre i primi andranno un
po' più dentro il disco. E andando a scavare escono fuori tocchi
Hard Rock ( Charlie
), richiami funk ( Cigarettes
), le due cose che si uniscono ( Circus
) e un finale psichedelico ( Sunflowers
Field
) in cui un po' tutti possono trovare qualcosa che aggrada.
Debutto
abbastanza convincente per i GBU. Voglia
di fare Rock senza troppi pensieri, ma mettendo in mostra che le idee
ci sono e possono essere sviluppate anche molto bene. Sta a loro
decidere in quale verso sviluppare la loro musica.
I Tristi Tropici sono
un posto da esplorare. Così i toscani SUS
(
all'anagrafe SuccedeUna Sega )
presentano il loro nuovo lavoro, undici brani che provano a portarci in un modo fantasioso e sognante, fatto di malinconia e sorrisi,
un viaggio più emotivo che reale.
Partendo
con l'ascolto di Tristi Tropici
avevo pensato di essere davanti all'ennesimo disco rock di qualche
band emergente, con l'occhio strizzato al pop, un disco più gridato
che cantato e fatto apposta per riscuotere un seppur minimo consenso
commerciale. Lunedì
Feriali
sembra fatta dal sarto per dar seguito alle mie teorie. Ecco, non
avrei potuto sbagliarmi di più.
Già
da Il fascino
indiscreto del Compasso
il disco prende tutta un'altra piega, portandoci appunto in quei
Tristi Tropici che
dobbiamo scoprire. C'è sempre una forte componente vicina al Pop, ma
è elaborata con toni acidi e psichedelici, accompagnata da testi mai
banali. Il trittico Il
Cerchio, Tristi Tropici e
Wake sono
un po' il sunto di tutta questa teoria, una voce che ricorda
sinistramente Battisti ( Il
Cerchio
), atmosfere esotiche ( Tristi
Tropici
) il tutto condito dalla voglia di andare lontano dagli stereotipi
della musica indipendente italiana di questo periodo.
Tristi Tropici è
un disco congegnato benissimo e realizzato meglio. Da queste idee si
poteva tirare fuori un disastro totale o un disco ottimo, i SUS
riescono
nella seconda opzione. Un lavoro che di certo li farà emergere
definitivamente dal marasma che è la musica italiana di questi anni.
Devo ammettere che i 15
Minutes of Shame
li avevo già sentiti suonare, ma non lo ricordavo. Li vidi qualche
tempo fa in apertura del concerto dei Fast Animals and Slow Kid e
l'impressione che mi fecero fu ottima. L'unico errore fu dimenticare
il loro nome. Quindi ora con il loro primo album tra le mani, il
ritrovarli non può che farmi piacere.
E
l'impressione lasciatami da quel loro live la ritrovo in questo
Scrambled Eggs. Un
rock essenziale e con pochi fronzoli, che lascia poco
all'immaginazione di chi ascolta anzi mette tutto in campo. Ma che ti
spiazza in diverse occasioni, con aperture al pop (Ye-Yeah
), accenni di reggae ( Michael
) e traspare anche un certo amore per l'Hard Rock ( Nature
Reawakens in Springs, Gaugamela
). Ma è una forte attitudine punk a farla da padrone e che pervade
tutto l'album. Una voglia di suonare senza troppi pensieri e con la
voglia di divertirsi. E se escludiamo un leggero senso di
ripetitività con l'andare del disco, Scrambled
Eggs suona
decisamente bene. Forte, potente e compatto.
Ottimo
inizio per i 15
Minutes of Shame che
mettono in mostra una spiccata tendenza a fare del bel rock. Ora è
tutto in mano a loro visto che hanno dimostrato di saperci fare e
speriamo che con il tempo riescano a trovare la loro strada e a
limare quelle piccole pecche che ogni debutto si porta dietro.
Se a ottantuno anni e con una parete
piena di dischi scritti e suonati hai ancora la voglia e la forza di
metterti in gioco vuol dire che dentro hai qualcosa di speciale. E
Willie Nelson quel qualcosa
lo deve sicuramente avere, visto che torna nei negozi con un nuovo
album, che numerare risulta impossibile vista la mole della sua
discografia. Band Of Brothers è
il suo ultimo lavoro in cui sono nove i brani inediti, cosa
abbastanza rara visto che le ultime pubblicazioni erano per la
maggior parte cover e duetti.
Quando
si arriva all'età di Willie
Nelson
è abbastanza normale che si sia persa per strada la foga e
l'irruenza della giovinezza, ma la classe, quella si che resta la
stessa. E questo nuovo lavoro trasuda eleganza e conoscenza. I toni
sono più sommessi e lenti rispetto al passato, la voce è ancor più
roca ma l'abilità nella composizione è rimasta intatta. Ormai i
suoni che lo hanno reso celebre sono lontani e fanno capolino solo in
pochi passaggi ( Wives
And Girlfriends, Used To Her, Crazy Like Me
) ma sembra ultimato il passaggio alla canzone d'autore vera e
propria, con cui il Country c'entra poco. Sembra che Willie
Nelson abbia
compiuto lo stesso percorso che il suo amico Johnny Cash intraprese
negli ultimi anni di carriera.
Ci
sono artisti che sarebbe meglio se smettessero di produrre musica già
da molto giovani, altri che non dovrebbero smettere mai. Willie
Nelson è
sicuramente nella seconda categoria. Possono cambiare i suoni,
possono venir meno le forze, ma quando hai ancora cose si può esser
certi che la musica rimarrà sempre di alto livello.
Ammetto di aver scoperto Lo Stato
Sociale solamente da poco. La
loro prima uscita discografica mi era sfuggita e l'ho recuperata solo
pochi mesi fa. E con il disco ho recuperato anche le recensioni
dell'epoca. Un'ecatombe. Ma anche un trionfo tra il pubblico. Turisti
Della Democrazia è
stato uno dei lavori più contrastanti della musica italiana degli
ultimi anni, e questo nuovo L'Italia Peggiore
non sarà da meno. Si perché il loro approccio musicale non è
cambiato di una virgola, il che non cambierà i giudizi su di loro,
tra chi li ama e chi li odia.
Quello
de Lo Stato Sociale
è un fenomeno strano. La loro immediatezza e cazzonaggine li porta a
essere adorati dalla folla, che nei loro testi sloganistici rivede
l'Italia di oggi, mentre la critica gli da addosso per lo stesso
motivo, rivedendo in loro un populismo e una sagra del luogo comune
come difficilmente si era visto in passato. Ma forse, e come quasi
sempre, la verità è nel mezzo. Ci troviamo davanti a una naturale
evoluzione del pop, con delle derivazioni indie, in cui il motivetto
orecchiabile e il testo a volte no-sense, a volte triviale, a volte
accusatorio li porta a essere sempre al centro dell'attenzione.
Resta
solo da capire da quale punto di svista si voglia sentire la musica
de Lo Stato
Sociale.
Se la si vuole prendere sul serio, allora partiamo con le critiche da
cui il disco non può che essere esente. Populismo, ricerca di slogan
ad effetto, ripetitività musicale con le basi sintetiche che di
certo entrano in testa ma che a livello musicale non sono il massimo
della vita. Se invece la vogliamo prendere per come la descrivono
loro, ovvero per delle canzonette, allora il discorso cambia, perché
la band bolognese sa quel che fa e si sa che delle derive nel trash
in Italia sono sempre apprezzate.
Ho
letto in giro di tutto. Paragoni con I Cani ma con un tasso
intellettuale più basso, confronti con Vasco Brondi che sembra
essere la loro nemesi. Influenze ovviamente ne hanno avute anche loro
e di certo si sente nella loro musica, ma magari invece di continuare
a confrontarli con altri artisti, pensiamo a Lo
Stato Sociale come
un'entità a se stante, che può piacere o no, ma che di sicuro non
rappresenta il peggio che c'è in Italia, come invece letto da più
parti.
I Kasabian sono
in rampa di lancio nella scena musicale britannica ormai da qualche
anno. Già nel 2011 con Velociraptor!Si
erano affacciati alla ribalta europea con decisione. Ma sembrava che
mancasse ancora qualcosa per fare il definitivo salto di qualità che
li portasse sulla bocca di tutti. E ora prova a farlo con questo
nuovo 48:13 ( non cercate riferimenti numerici strani, è solo la durata dell'album ).
Ascoltando
tempo fa il primo singolo estratto da questo nuovo lavoro ( Eez-eh
) la curiosità per il disco era aumentata esponenzialmente, visto
che il brano in questione sembrava più sfornato da una band disco
che dai Kasabian.
Pensavo che la già forte componente elettronica dei precedenti
lavori avesse preso definitivamente il sopravvento sull'anima rock
della band, e forse in parte è così. Ma Eez-eh
è
un caso limite, una deriva che nel complesso del disco sta anche
bene.
Dopo
un'iniziale stasi il disco esplode immediatamente con Bumblebee
e sembra non arrestarsi mai. Stevie,
Doomsday e
Treat sono
un concentrato di energia che metterebbe a dura prova chiunque, e
difficilmente si può restare fermi ascoltandole. Era impossibile
tenere quel ritmo per tutto il disco, quindi ecco Glass
e
Explodes che
ci portano in un mondo elettronico e onirico in cui perdersi è molto
facile. E dopo il delirio di Eez-eh
(
serio candidato a essere tra i tormentoni dell'estate ) ecco la
chiusura delicata di S.p.s,
lenta
ballata dal chiaro gusto britannico.
Se
la spinta che serviva ai Kasabian
era un disco eccellente, ora ce l'hanno. Un disco in cui non
inventano nulla, ma prendono quello che hanno fatto nei precedenti
lavori e lo rielaborano in una confezione nuova. E che conquisterà
una fetta sempre maggiore di fan
In questo caso la premessa è
d'obbligo. Jack White è la cosa migliore che è capitata alla
musica negli ultimi due/tre lustri. Una sorta di Re Mida della musica
moderna. White Stripes, Racounteurs, The Dead Wheater e poi da
solista tutto quello che è uscito dalla sua mente e si è
trasformato in musica ha influenzato l'andamento musicale. Una buona
parte della musica alternativa che ascoltiamo ora è figlia di
Elephant. E in questi ultimi anni le sue composizioni hanno aumentato
l'ampiezza fino a coprire tanti di quei generi diversi che quasi si
perde il conto.
E dopo due anni è giunto il momento di
dare un seguito a Blunderbuss, quindi
ecco arrivare Lazaretto.
Undici nuovi brani che vanno da una parte all'altra, senza apparente
connessione logica, se non nella mente di Jack
White. Undici
pezzi che avrebbero potuto vivere di vita propria ed essere
considerato ognuno un brano validissimo, ma che riescono a convivere
e a legarsi armoniosamente l'uno con l'altro.
Rock-Blues
acidi al limite della psichedelia ( Three
Woman
), uno strumentale che partendo dal Blues arriva a sfiorare l'Heavy (
High Ball Stepper
), una ballata che sfiora il Country ( Temporary
Ground
) e altre ballate di una dolcezza e maliconia uniche ( Want
And Able, Entitlement
), fino a pezzi che richiamano l'Honky-Tonk ( Just
One Drink
) e un rock più classico ( I
Think I Found The Culprit
). E mettendo tanta carne al fuoco a volte si rischia di bruciarla,
ma Jack White come
il migliore degli chef riesce a unire il tutto dandogli un sapore
fantastico.
Difficile
trovare un disco che mantenga per tutta la sua durata la stessa,
altissima, qualità. In cui nessun pezzo può essere considerato un
riempimento rispetto agli altri, ma che anche preso per suo conto e
fuori contesto ha una propria validità. E si può soprassedere sul
fatto che magari due brani consecutivi siano completamente opposti,
se il risultato è questo ben venga questa varietà.
Resta
poco da dire su questo disco, se non un immenso ringraziamento a Jack
White
che ci offre un disco da ascoltare a ripetizione senza rischio di
annoiare, e ci dimostra ancora una volta che abbiamo a che fare con
un genio.
Ci sono artisti che in tutta la
carriera restano sempre uguali a loro stessi, proponendo sempre il
solito materiale senza nulla di nuovo. Altri invece nel corso del
tempo si evolvono andando a trovare quello che è il loro suono. Il
Pan Del Diavolo rientra nella
seconda categoria. Dopo il chiassoso
inizio con Sono All'Osso, e
il passaggio intermedio di Piombo, Polvere e
Carbone
ecco arrivare il terzo disco in quattro anni, FolkRockaBoom.
Il percorso artistico del duo palermitano li ha portati ad abbassare
di molto i toni rispetto al passato, avvicinandosi al cantautorato,
senza per questo perdere la loro anima Folk-Rock che li accompagna
sin dagli esordi. E in questo disco si alternano perfettamente pezzi
che guardano al passato con pezzi che segnano questo strappo con il
passato. Il tutto con la solita chitarra a creare intrecci
psichedelici e onirici, che portano la mente da altre parti. A
sintetizzare il tutto c'è Aradia pezzo strumentale che con i
suoi richiami Tex-Mex ci fa assaporare sonorità coloratissime.
La già sentita Il Meglio e la titletrack FolkRockaBoomsono il sunto perfetto del disco, arpeggi eleganti pronti a
esplodere da un momento all'altro. E questo concetto è portato alla
sublimazione dalla bellissima Mediterraneo che richiama un non
so che di Rino Gaetano soprattutto nel testo, stessa sensazione che
si ha in molti altri punti del disco. E se quello che ascolti ti fa
pensare a qualcuno che è stato grandissimo è sempre un pregio.
Vedere una band che segui sin dagli esordi maturare in questo modo
non può che dare soddisfazioni a chi ascolta. Questo cambiamento
porterà sicuramente un successo maggiore a Il Pan Del Diavolo,
senza per forza dover perdere qualcosa in termini di qualità.
I Punkreas sono
arrivati a venticinque anni di carriera e questo è uno di quei
traguardi da festeggiare. La maggior parte dei gruppi in queste
occasioni sforna un “Best Of” e se la cava così, ma i Punkreas
sono un gruppo particolare e decide di rendere omaggio al loro primo
quarto di secolo di attività in modo diverso dal solito, sfornando
un disco di cover in cui rendere omaggio a quelle che sono state nel
corso degli anni le loro ispirazioni.
Leggendo
nei giorni scorsi le canzoni che sarebbero state presenti nel disco
alcune le avevo subito trovate perfette, mentre altre mi avevano
incuriosito. Scegliere i CCCP, i Tre Allegri Ragazzi Morti o gli
Skiantos sembrava normale vista una certa affinità con i suoni
proposti dalla band milanese. Ma la scelta di Jimmy Fontana o gli
Africa Unite un certo interesse lo aveva creato. E probabilmente
quelle che sembravano meno adatte ai Punkreas
si rivelano forse quelle meglio riuscite.
Trattandosi
di una festa non possono mancare gli invitati. E quindi ecco che
abbiamo Piotta ( Il Mondo
), Samuel Romano ( Nuova
Ossessione ), Toffolo (
La Tempesta
), Bunna ( Sotto
Pressione ), Alteria (
Reality
), Alberto Radius ( Poliziotto
) e il compianto Freak Antoni ( Ti
Rullo di Kartoni ).
Come
in tutti i dischi di cover ci sono quelle meglio riuscite e quelle
meno. In questo caso quelle che suonano meglio sono quelle che
vengono ribaltate totalmente rispetto all'originale. Quindi ecco che
Il Mondo di
Jimmy Fontana suona dannatamente moderna nonostante sia stata scritta
cinquant'anni fa. Così come La
Ballata Del Pittore di
Jannacci prende nuova vita grazie alla foga dei Punkreas, che
in tutti e i dodici brani imprime il proprio stile senza provare a
fare qualcosa di diverso. Sui brani che sembravano più vicini ai
suoni della band milanese pesa il confronto con l'originale, in cui
ad averla la meglio sarà il solo gusto personale. Una nota a parte
la merita Reality
di
Richard Sanderson che mai avrei pensato di rivalutare e apprezzare,
ma i Punkreas
riescono
in questa impresa insieme a Alteria, creandone una versione che se
una persona non conoscesse l'originale la potrebbe prendere per un
brano del passato della band.
Radio Punkreas
è una festa è per questo bisogna prenderla. Un modo di divertirsi
per la band e per far sentire qualcosa di diverso al proprio
pubblico. E ci offre la possibilità di sentire ancora una volta la
voce di Freak Antoni e non è poco.
Tracklist:
Io Sto Bene - CCCP
Il Mondo – Jimmy Fontana
Nuova Ossessione – Subsonica
La Tempesta – TARM
Sotto Pressione – Africa Unite
Reality – Richard Sanderson
Cani Sciolti – Sangue Misto
Poliziotto – Alberto Radius
La Ballata Del Pittore – Enzo
Jannacci
Pigro – Ivan Graziani
Ti Rullo Di Kartoni –Skiantos
Il Mio Androide è Uscito Dallo
Schermo Tv – Gli Impossibili
...Like Clockwork è stato uno degli album migliori del 2013. E che avesse delle ottime potenzialità anche dal vivo si era sentito da subito. E ieri sera all'apertura della kermesse del Rock in Roma si è avuta l'ulteriore conferma di tale teoria. Sei pezzi dall'ultimo disco e tanto materiale preso dal passato della band. Si pesca anche dai precedenti lavori, con una certa preferenza per Songs For The Deaf.
Era il mio debutto con i QOTSA dal vivo e avevo una mia idea su cosa aspettarmi. E se anche le aspettative erano alte, Josh Homme e soci riescono anche ad alzare l'asticella. Il quintetto statunitense offre uno spettacolo fatto di luci e suoni duri, uno show serratissimo senza un attimo di sosta per la gioia del pubblico romano.
Durante tutta l'ora e mezza del concerto nella mente mi risuonavano tre aggettivi: Compatti, spavaldi e incazzati. Sull'ultimo servono poche spiegazioni, basta sentire uno qualsiasi dei loro dischi. La spavalderia è dovuta alla possibilità di giocarsi due singoloni come No One Knows e My God Is The Sun in apertura di concerto senza che per questo la scaletta ne risenta. Ma è la compattezza che mi ha lasciato a bocca aperta. Suonano e si muovono sul palco come se fossero un corpo unico, stringendosi al centro del palco e lasciandone una buona metà inutilizzato, cosa che offre ancor di più un senso di unità.
Dal punto di vista musicale c'è ben poco da dire visto che l'esecuzione è perfetta e dal vivo i loro pezzi suonano ancor più crudi e violenti rispetto alle versioni su disco. E il finale della prima parte di set, con Better Living Through Chemistry e Go With The Flow, varrebbe da solo il prezzo del biglietto, vista la forza con cui vengono suonati questi due brani.
Come detto le aspettative erano molto alte ma Josh Homme e compagnia riescono a fare anche qualcosa di più. L'unica nota negativa è la brevità dello show, un'ora e mezza scarsa, che però passa in secondo piano visto l'intensità messa sul palco durante tutto lo spettacolo.
Setlist :
You Think I Ain't Worth a Dollar, but I Feel Like a Millionaire