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martedì 28 aprile 2015

Recensione Management Del Dolore Post-Operatorio - I Love You

Due dischi nell'arco di dodici mesi per una band sono una sorta rarità di questi tempi. Ma il Management del Dolore Post-Operatorio ci ha insegnato che le convenzioni non fanno per loro, quindi eccoli arrivare con il loro terzo lavoro, I Love You che arriva appunto un anno dopo il fortunato McMao.
Il senso di questa nuova uscita è da cercare nell'ultima traccia di questo nuovo lavoro, Lasciateci Divertire, che in fondo è lo spirito della band abruzzese. È il divertimento, loro e del pubblico, che trascina la musica di questi artisti. E in questo nuovo lavoro lo fanno alquanto bene, tornando sulla strada maestra segnata da Auff!! lasciando da parte gli esperimenti elettronici che accompagnavano il precedente lavoro. Guidati magistralmente da Giulio Ragno Favero ( Teatro degli Orrori) alla produzione, Il Management del Dolore Post-Operatorio riprende le chitarre e le rende nuovamente protagoniste del loro disco. E se si parte con una canzone “d'amore” a modo loro ( Se ti sfigurassero con l'acido), già dal secondo brano Scimmie ( anche primo singolo estratto dal disco) la via da percorrere è ben chiara, con l'indie pop che gli ha dato notorietà a farla da padrone. I soliti testi pervasi d'ironia che ormai sono un tratto distintivo della band, che continuano a raccontare di quelle brutture delle nostre vite.



I Love You risulta un disco di facile ascolto, ma con una profondità comunque importante. Un disco che segue la propria strada andando a calcare la mano sui punti di forza della band. Un album che si fa risentire molto volentieri.

Recensione Blur - The Magic Whip

Immaginate una band che si ritrova per un reunion dopo anni di separazione. Immaginateli che per annoiare l'attesa di cinque giorni liberi ad Hong Kong decidono di ammazzare il tempo in studio di registrazione a suonare. Immaginate che dopo un anno il chitarrista Graham Coxon rimette mano a quel materiale e provi a tirarne fuori un album. Immaginate i quattro componenti della band che, a sorpresa, un paio di mesi fa annunciano l'uscita di un nuovo disco di inediti. Aprite gli occhi e vi troverete davanti The Magic Whip, primo disco in studio dei Blur da dodici anni a questa parte.
E di acqua sotto i ponti nel frattempo ne è passata tanta. Damon Alban diviso tra Gorillaz e disco solista, Coxon con le sue prove molto più vicine ai suoni classici della band. Ed è proprio la contrapposizione tra i due, quella che aveva portato allo scioglimento del gruppo, quella che da vita a questo nuovo album. Si cerca di far convivere le diverse anime che vivono all'interno di questi artisti, dopo oltre una decade di altre esperienze.
E il risultato è un mix di queste anime, in cui Coxon in fase di produzione è andato a limare la personalità enorme di Alban per creare un qualcosa che si avvicini il più possibile a un lavoro di gruppo, che a un altra prova di grandezza del frontman. E se mettendo il disco nel lettore sembra di essere catapultati ai tempi di Parklife con Lonesome Street, già dal secondo pezzo ( New World Towers) i suoni di Everyday Robots si fanno presenti e importanti. Suoni che ricompaiono in My Terracotta Heart ballata minimale sul rapporto tra le due anime della band. Ma l'equilibrio lo si raggiunge tra i vari brani, andando ad alternare pezzi dichiaratamente pop ( Ong Ong, Go Out), pezzi che costeggiano il funk ( Ghost Ship) e brani più ad orientamento rock ( I Broadcast).


Dobbiamo gridare al capolavoro? No. Abbiamo davanti un bel disco? Si. I Blur riescono a regalare un album che è qualcosa in più rispetto a una semplice raccolta di brani fatti in questi anni. Ha la forma di un disco, che non raggiunge l'apice dei grandi lavori della band, ma che alla fine dell'ascolto ti fa venir voglia di ricominciare ad ascoltarlo.

venerdì 24 aprile 2015

Recensione Great Lake Swimmers - A Forest Of Arms

Territori sconfinati, natura selvaggia, specchi d'acqua che sembrano infiniti. Questo è il ricordo che ho di quei due giorni passati in Canada. E la colonna sonora ideale di quei giorni sarebbe stata di certo la musica dei Great Lake Swimmers, se solo all'epoca fossero esistiti. Ora arriva il loro sesto album in studio, A Forest of Arms successore di New Wild Everywhere del 2012.
Sono parecchie le band che cercano di rispecchiare la tradizione della propria terra, ma poche riescono a fornire le sensazioni che una terra riesce a darti. Tony Dekker e compagni riescono a donare con i loro suoni tutte le emozioni e le inquietudini che quei che quella terra riesce ad offrire. I suoni sono quelli di sempre, non variano molto dallo spartito composto con i precedenti lavori, ma il tutto viene fatto con un eleganza che non può non lasciare affascinati.
Sonorità folk ( Something Like a Storm, A Bird Flew Inside The House), momenti più riflessivi ( Don't Leave Me Hanging, I Was a Wayward Pastel Bay, Expecting You), archi che fanno capolino qua e là ( One More Charge At The Red Cape) il tutto pervaso da un fondo di malinconia tipica di chi in quelle lande infinite ci è nato e cresciuto. The Great Bear è una piccola perla all'interno di un disco comunque di buonissimo livello.



Lasciare la strada vecchia può essere un rischio. Rischio che non decidono di correre i Great Lake Swimmers e probabilmente fanno bene. Difficilmente si trovano band che arrivate al sesto disco non ne hanno sbagliato neanche uno, e riescono a non sbagliare neanche con questo A Forest of Arms. Forse non una pietra miliare nella storia della musica, ma un lavoro che mantiene in alto l'asticella di questa band.

giovedì 23 aprile 2015

Recensione Post-CSI - Breviario Partigiano

Il vero significato del 25 Aprile si sta lentamente perdendo con il passare degli anni. Vuoi per la graduale scomparsa di chi a fatto si che quella giornata fosse possibile, vuoi per una sorta di revisionismo storico in atto nel nostro paese, la data del 25 Aprile 1945 non ha più quel valore che ricopriva per le generazioni che ci hanno preceduto. E come spesso accade è compito degli artisti fare in modo che questa memoria non vada persa. Lo si è fatto nel 1995 grazie al comune di Correggio che mise insieme diversi artisti, tra cui i CSI, Marlene Kuntz, Africa Unite, nella raccolta Materiale Resistente per i cinquant'anni dalla Liberazione. Lo hanno fatto dieci anni fa i Modena City Ramblers con Appunti Partigiani, in cui rileggevano canti popolari insieme a diversi ospiti. Nel suo piccolo lo ha fatto Francesco Guccini nel suo ultimo disco L'ultima Thule con i brani Quel giorno d'Aprile e Su in collina. E ora per il settantennale lo fanno i Post-CSI con questo Breviario Partigiano, nato da un'idea di Massimo Zamboni che porta in dote racconti raccolti in questi anni sulla sua storia familiare, legata a doppio filo a quella della resistenza.
E questo progetto porta a un disco, un film e un libro realizzati grazie ai fans, che nel Crowdfounding organizzato per il progetto hanno raccolto il necessario nell'arco di ventiquattro ore e con il resto hanno potuto pure procedere alla distribuzione nei negozi del progetto, non riservandolo solamente ai finanziatori.
Il disco che fa da colonna sonora al film Il Nemico – Un Breviario Partigiano rimette insieme Massimo Zamboni, Giorgio Canali, Gianni Maroccolo e Francesco Magnelli, già insieme nei CCCP prima e nei CSI dopo, e vede l'aggiunta della voce di Angela Baraldi, e come da reunion ormai datata 2013 si nota la mancanza di Giovanni Lindo Ferretti.
Breviario Partigiano non punta a mettere in risalto le qualità musicali dei singoli, ormai già note a tutti, ma si concentra sulle storie, sulle sensazioni, su quello che a tratti sembra essere un grido disperato di chi non vuole essere dimenticato. E rispetto ai già citati omaggi degli ultimi due decenni ha la forza di sembrare davvero un disco, e non solo un collage di pezzi che fanno parte della nostra cultura popolare. Tra brani inediti ( Il nemico, Senza domande e Breviario Partigiano) ripescaggi dalla discografia dei CSI ed esecuzioni live prese dal tour del 2013, i Post-CSI riescono a dare un senso a questo materiale dal forte impatto culturale. E la sublimazione è nella chiusura di 29 Febbraio in cui è lo stesso Zamboni a narrare la storia del proprio nonno materno, fascista ucciso dai partigiani.


Progetti di questo tipo sono sempre borderline. Si rischia facilmente di trasformare il tutto in un operazione nostalgia, sia per i temi trattati che per la storia dei componenti riuniti per l'occasione. Ma quando i nomi in ballo sono tra quelli che hanno segnato indelebilmente la storia della musica italiana tutti i dubbi vengono dissipati da un lavoro omogeneo e vero. Un lavoro potrebbe essere un episodio a se stante, ma che potrebbe pure far venir voglia a questi meravigliosi artisti di tornare a fare qualcosa insieme, che non siano tour di ricordo dei tempi andati. 

martedì 21 aprile 2015

Recensione Lydia Lunch Retrovirus - Urge To Kill

I would be humiliated if I found out that anything I did actually became a commercial success.


E lo spirito è rimasto lo stesso. Il successo commerciale sarebbe umiliante e quindi Lydia Lunch con i Retrovirus va a ripescare da quel suo repertorio che di tutto cercava tranne il successo. E lo fa rivivere con lo stesso spirito con cui era stato concepito in origine, una potente tempesta di suoni distorti, accompagnati da un canto disperato, quasi un lamento.

Lydia Lunch va a prendere a piene mani dai suoi lavori ormai storici ( 13.13, Honeymoon In Red, In Limbo, Queen Of Siam) e ci regala anche la cover di un brano degli amici Suicide ( Frankie Teardrop). E se la partenza di Snakepit Breakdown volge lo sguardo al periodo più noise della sua produzione, e nella mezzo del disco che troviamo un tris di brani che incendiano l'album. Still Burning col suo incedere lento fino all'esplosione di distorsioni, la già citata Frankie Teardrop decisamente più acida della versione originale e Fields Of Fire che si rifà a sonorità molto più vicine all'Alternative Rock venuto dopo il suo periodo di massimo splendore.




Urge To Kill fa rivivere in maniera diversa alcuni pezzi della gloriosa carriera di Lydia Lunch. Ma non gli fa perdere lo spirito originale, perché se è vero che con il tempo si matura e si cambia, la cantante americana non sembra esserne molto d'accordo:


I'm nihilistic, antagonistic, violent, horrible - but not obliterated, yet. I just refuse to be beaten down. I think it's stubborness that keeps me going.”

Il disco è disponibile nelle versioni: CD, vinile colorato in tiratura limitata a 299 copie, esclusivo box limitato a 99 copie con vinile colorato, DVD e gadgets



Distribuzione: Audioglobe (Italy, ROW), Broken Silence (Germania, Europa), MDV
(Stati Uniti, Canada)

Label: Rustblade Contatti Label: info@rustblade.com web: www.rustblade.com 

lunedì 20 aprile 2015

Recensione La Sindrome della Morte Improvvisa - Derice - (Re)Offender

LA SINDROME DELLA MORTE IMPROVVISA – DI BLATTA IN BLATTA

Secondo EP per i quattro musicisti brianzoli. Abbandonato il Noise del primo lavoro, con questo Di blatta in blatta i toni si fanno molto più pesanti e vicini allo Stoner, con qualche sfumatura verso il Metal. Quattro brani per circa venticinque minuti di musica, in cui Kosakof spicca dal resto per varietà e impatto, mentre la chiusura Sfiati nel cranio sembra quasi essere un grido disperato nel suo incedere pesante.
Buon lavoro per La Sindrome della morte improvvisa, che rischia cantando in italiano in un genere che non è ben avvezzo alla nostra lingua. Ora li attendiamo sulla lunga distanza.


(RE)OFFENDER – (RE)OFFENDER

Secondo EP per i (Re)Offender. Suoni onirici con un ampio respiro internazionale, linee vocali che si mescolano con chitarre e synth, suoni eleganti per un non banale pop. Forse a tratti un po' ridondante nelle scelte musicali, ma di sicuro di elevata qualità. E il singolo Meeting of Feeling è una piccola perla che fa il sunto di quanto detto finora.
(Re)Offender può essere un buon viatico per aprire parecchie porte, sia in Italia che all'estero. Suoni che da noi non sono così riconoscibili, potrebbero essere la fortuna di questa band.



DERICE – ABLE TO FLY

Sonorità britanniche, ricordi di Damien Rice ( Elle) o dei Kodaline ( Right Shoes, Tainted Love) o comunque di sonorità eleganti sentite negli ultimi anni. Un arrangiamento al limite della perfezione e una produzione ottima rendono questo primo EP dei Derice un'ottima base di partenza per un futuro radioso. Un pop raffinato che tende a evadere la banalizzazione, con scelte musicali abbastanza diverse tra i quattro brani.
Able To Fly sembra essere il classico lavoro che raccoglierà più consensi all'estero che in Italia, viste le sonorità così distanti da quello che ci offre il pop italiano su grossa scala.



domenica 5 aprile 2015

Claudio Simonetti Demons 30th years anniversary

Il cinema horror è probabilmente il genere in cui c'è bisogno di legare alle immagini la musica giusta. Riuscire a restituire la giusta tensione del genere con la musica è un'impresa alquanto complessa. E la storia ci dice che i migliori in questa speciale categoria sono stati di certo i Goblin. La band italiana ha aiutato Dario Argento a fare la propria fortuna, così come il regista romano a aiutato la band a diventare famosa in tutto il mondo.
Nel 1985 il leader della band, Claudio Simonetti musicò la colonna sonora di Demoni, forse il capolavoro di Lamberto Bava, che vede nuova luce ora a trent'anni dall'uscita. E se per lunghissimi tratti della sua carriera Simonetti aveva dato libero sfogo della magia del Prog, in Demoni erano gli anni '80 ad aver preso il sopravvento, ed ecco arrivare l'elettronica a farla da padrone, con il Prog un po' in declino. E Simonetti nella sua sapienza musicale ha saputo adattarsi alla perfezione, riuscendo a creare trame intense e paurose anche cambiando totalmente stile. E la musica riesce a dare, se possibile, ancor più ritmo alle immagini sullo schermo.


Creare una colonna sonora perfetta è sempre complicato, ma Claudio Simonetti è sempre stato maestro in questo. E quella di Demoni va di diritto tra le migliori, perché ha saputo dare una sferzata diversa rispetto a quello che lo aveva portato al successo mondiale. 

venerdì 3 aprile 2015

Caparezza @Palalottomatica Roma 02/04/2015

“Qualcuno dovrà patire le pene dell'inferno per l'acustica del Palalottomatica”. È il mio primo pensiero ogni volta che esco dal palazzo dello sport di Roma dopo un concerto. E dopo il concerto di Caparezza di ieri sera il pensiero è stato lo stesso. Un'acustica indegna, soprattutto per uno show come quello che ha tirato fuori il “rapper” di Molfetta.
La definizione di Rapper è ormai un diminutivo per Caparezza, vista che anche la sua musica da tempo ha preso una strada diversa. Ed anche il suo show si è trasformato in uno spettacolo totale, capace di unire arte e musica, momenti divertenti e momenti più seri. Show che non perde neanche ritmo neanche durante i numerosi cambi di scenografia, ottimamente riempiti da video surreali sull'arte ( su tutti quello che vede protagonista Pierpaolo Capovilla) e dall'interazione tra Capa e il suo pubblico, che pende letteralmente dalle labbra dell'artista pugliese.
Spettacolo che ovviamente pone in risalto i brani tratti dall'ultimo Museica, ma che non disdegna un ripescaggio di brani dai precedenti lavori, soprattutto dai due album precedenti ( Le dimensioni del mio caos e Il sogno eretico) con ovviamente i grandi successi a riscuotere i più grandi boati, anche se la partecipazione del pubblico non è mai venuta meno. E se su Vieni a ballare in Puglia o Sono fuori dal tunnel la reazione del pubblico era abbastanza scontata, ecco che su nuovi pezzi la folla si esalta allo stesso modo, concedendo una lunga standing ovation per China Town, il pezzo più intimo scritto finora da Caparezza, e che il pubblico romano sempre aver capito appieno.


Ma il vero mattatore della serata è lui, in grado di gestire il proprio pubblico a piacimento e a farlo pendere dalle proprie labbra. E lui non si risparmia per il suo pubblico. Quasi due ore e mezza in cui Caparezza è una scheggia impazzita sul palco, pronto a cambiare abito per ogni canzone e a cercar di far aprire gli occhi sul vero significato di alcuni suoi brani.
Uno show che ha le carte in regola per essere ricordato per molto tempo, purtroppo non viene accompagnato da una location all'altezza. Ma questo non è un difetto imputabile a Caparezza che anzi, si dimostra uno showman degno di palcoscenici sempre più ampi.