Stanis
La Rochelle non sentiva l'Africa, probabilmente perché stava girando
a Pomezia. Magari se il fiume Ngube fosse stato in zona Aprilia,
l'Africa si sarebbe sentita di più. O se i mezzi a disposizione
della produzione degli Occhi del cuore avessero permesso di girare
nella savana, sarebbe venuta fuori una scena memorabile.
Siccome
i Mumford and Sons hanno i
mezzi per andare a registrare direttamente in Africa, hanno preso
armi e bagagli e sono andati a registrare un EP direttamente a
Johannesburg.
O magari hanno solo approfittato del tour che passava da quelle parti
per collaborare con alcuni artisti del posto.
Ed
è stata una buona occasione per fermare il processo di
Coldplaizzazione che era partito dal precedente disco Wilder
Mind. Cinque
brani in cui i quattro ragazzotti inglesi hanno voluto sperimentare
qualcosa di totalmente diverso dal solito, con un risultato
decisamente buono.
Ma
di esperimento trattasi, e tale resterà. Così come negli Occhi del
Cuore solo una puntata era lontano da Villa Orchidea, anche i Mumford
and Sons dopo
questo EP torneranno nella loro zona confortevole, quella che sta
accanto allo studio di registrazione dei Coldplay.
Però mi piace immaginare Marcus Mumford che gira per le sterminate pianure africane vestito come un novello David Livingstone, col suo bel cappellone di paglia, in attesa di un'ispirazione che arrivi dal nulla, come la voce che spingeva Corinna Negri verso il fiume Ngube.
Disco in studio. Tour. Disco Live.
Raccolta. Ripeti.
Disco in studio. Tour. Disco Live.
Raccolta. Ripeti.
I Red Hot Chili Peppers sono entrati
nel circolo vizioso che colpisce tutte le storiche band arrivate a un
determinato punto della carriera. Idee vicine allo zero, casa
discografica che obbliga a pubblicare qualcosa e loro che eseguono.
Quando invece avrebbero solo voglia di fare surf sulle spiagge
dell'amata California.
"No, ma stavolta hanno fatto un disco
Prog" ( giuro che me lo hanno detto). Ecco, a chi me lo ha detto poi
consiglierò in privato qualche disco per capire cos'è il Prog.
La
formula dei RHCP è
abbastanza semplice. Si sono detti : “Californication
ha
fatto il botto, quindi continuiamo a rifare quello”. E se
Californication era
davvero un gran disco, da By The Way
in poi si è intrapresa una discesa che non si appresta a finire.
Tanto i loro sold out continuano a farli e questo gli basta. In The Gateway
sono riusciti pure a perdere il groove che li ha sempre
contraddistinti, come se avessero composto i brani e poi li avessero
registrati al rallentatore. Come quando con il videoregistratore
andavi indietro piano.
Forse il momento più alto dei RHCP negli ultimi anni
Il soldato Flea ci prova a tenere in piedi la baracca, con la solita
sezione ritmica impeccabile, ma sono vani sforzi, quindi non
sorprende il fatto che per fare della musica più nelle sue corde abbia deciso di
andare a suonare il campanello di casa Thom Yorke. E il risultato è più che discreto, diciamo anche ottimo.
The Getaway è un disco discreto, che non si eleva dal mucchio della produzione degli ultimi quindici anni della band, che farà felici i fan e lascerà indifferenti gli ascoltatoti occasionali.
Tranquilli che tanto il prossimo tour è
già tutto esaurito e tra cinque anni avremo il dodicesimo disco dei
RHCP, che sarà l'ennesimo
clone degli ultimi cinque dischi. Uno di quegli album che li ascolti e
quando è finito hai una sensazione di déjà vu, la stessa che avevi
avuto cinque anni prima e ancora altri cinque anni prima.
Nell'ultimo mese e mezzo Manuel
Agnelli è diventato l'artista di cui più si parla in Italia.
Era
scontato che la decisione di prender parte a X Factor avrebbe fatto
discutere, e il morigerato popolo del web non ha fatto mancare la
propria reazione sdegnata. Quindi tra un “venduto” e un “ha
fatto bene”, dalla prossima stagione televisiva Agnelli
avrà modo di far parlare ancora di sé, vista anche l'innata
capacità di non far nulla per risultare simpatico alle folle.
Gli
Afterhours arrivano a
questo nuovo disco dopo un periodo particolarmente difficile, tra
cambi di formazione ( Fabio Rondanini e
Stefano Pilia le new
entry alla batteria e alla chitarra), ma soprattutto perdite dolorose
che solo l'asse portante di questo nuovo Folfiri o
Folfox.
“Tu giurami
che noi, non moriremo mai. Avevamo un patto io e te, ma l'hai tradito
tu.”
Folfiri e
Folfox, per
chi non lo sapesse, sono nomi di due cicli chemioterapici. Cancro che
ha portato via il padre di Agnelli
e
che è la base di partenza di questo undicesimo disco della band
milanese. Un disco di rottura rispetto a tutto quello che la band ha
prodotto in quasi tre decenni di carriera. Il disincanto di Padania
è un lontano ricordo, così come la foga di Germi
o
Hai paura del buio? (
celebrato alla grande qualche tempo fa), per lasciare spazio a un
misto di inquietudine e angoscia. Che già dall'apertura di Grande
fanno
capolino, soprattutto per quel che riguarda testi e cantano di
Agnelli. Tanto
pianoforte, tante chitarre acustiche, poche distorsioni. E spazio per
qualche sperimentazione musicale a cui la band ci ha già abituato da
qualche disco.
Appunto
una rottura con il resto della discografia degli Afterhours.
Ognuno
il lutto lo elabora a proprio modo,
Agnelli
ha deciso di farlo in diciotto brani. Una rottura che è un pezzo che
si incastra alla perfezione nel puzzle della produzione della band. E
che farà storcere il naso ai fan degli Afterhours,
che avevano già iniziato a protestare da un paio di dischi a questa
parte. Ma Agnelli
oltre
a non far nulla per risultare simpatico, non fa neanche nulla per far
volere popolare, ma fa quello che pensa sia il meglio
per la sua band. E se non saranno tutti soddisfatti non penso gli
causerà dei problemi, visto che questo lavoro è forse il più
intimo tra tutti quelli che sono usciti dalla sua mente. E quello
dall'impatto meno diretto. Quindi forse i fan che ora lo
criticheranno saranno i primi a rivalutarlo, per quel che merita, tra
qualche anno.