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giovedì 13 ottobre 2016

Gli Inguardabili - Recensione Pearl Harbor

Il dirigere questo film deve esser stata la prova più dura nella vita di Michael Bay. Ha dovuto attendere un'ora e venti minuti prima di poter mettere la prima esplosione nella pellicola. Un record per lui. E me lo immagino là, dietro la sua macchina da presa, a girare e rigirare quella scena. Perché le proprie passioni vanno vissute fino in fondo. Ma non vi preoccupate troppo per il regista, perché nei centodieci minuti successivi alla prima esplosione, ne infila dentro a più non posso.
Perché in fondo lo scopo ultimo di Michael Bay è quello. Dar fuoco, con grandi botti, a tutto il set. Attori compresi.


Un bel film è una commistione ti tanti elementi. Regia, sceneggiatura, interpretazioni, reparti tecnici. Ecco Pearl Harbor ha tutto questo.
Al contrario però.
Josh Hartnett, Kate Beckinsale e il mio amico Benpezzo di tufoAffleck fanno a gara a chi recita peggio. Con Ben Affleck che quando c'è da competere in questa categoria riesce sempre a uscirne vincitore a mani basse. Ci tiene a queste cose.
Di solito in questi film mi diverto a cercare l'attore che non c'entra nulla col resto. Quell'attore totalmente fuori contesto che ha la classica espressione di chi sta pensando : “Sono qua solo per i soldi”
E questa volta il nostro uomo è...(rullo di tamburi) Dan Aykroyd.
Dan, perché? Hai lavorato con Spielberg, Landis, Attenborough, Woody Allen e Michael Bay. Fossi in te cancellerei dal curriculum quest'ultima voce, fidati, quelli delle risorse umane ai colloqui le notano ste cose.
Ma la cosa di gran lunga migliore di questo film è la trama. Sono abbastanza sicuro che il revisionismo storico sia iniziato con questo film.
Wikipedia dice che i primi aerei giapponesi sorvolarono Pearl Harbor alle 7.15 di domenica 7 dicembre 1941. Ora qualcuno mi spiega cosa stracazzo ci facevano dei bambini in strada a giocare alle 7 di domenica mattina? E l'ammiraglio che, sempre alle 7 di domenica mattina, era vestito di tutto punto già a metà di una partita di golf? Caro Michael Bay ma i tuoi cosa ti costringevano a fare alle 7 di mattina della domenica? Ti mandavano ad arare i campi alle 7 di domenica mattina? Dimmelo Michael, sto in pena per te.
Oppure vogliamo parlare di come vengono descritti i soldati giapponesi in questo film? Praticamente un popolo medievale a cui hanno messo in mano delle bombe e degli aerei, con i modellini delle navi in una piscinetta (o una fontana, vedete voi) per simulare l'attacco e che si mettono le fascette in testa
prima di decollare, Rambo style. Però tutti hanno l'espressione da "stamo a fa na cazzata". Ma Michael Bay non vuole esser troppo cattivo e li riempie di senso della giustizia e quindi mentre sono in volo sopra Pearl Harbor fanno gesti ai bambini (si, quelli che giocano alle 7 di mattina) di allontanarsi e scappare...E neanche il tempo di finire l'attacco il generale giapponese è ormai certo di averla fatta la cazzata e lo dichiara al mondo con un emblematico : “Ho paura che abbiamo svegliato il gigante che dormiva” (il generale giapponese lo sa benissimo che gli americani ce l'hanno più lungo). Ovviamente la colpa è la mia che vado cercando credibilità storica in un film di Bay, ma tant'è.


In tutto questo marasma di incompetenza, nulla tocca i picchi di quello che gli sceneggiatori mettono in bocca agli attori. Un concentrato di retorica e banalità che farebbero sembrare un editoriale di Gramellini uno scritto sui massimi sistemi. Rivedendo il film ho avuto modo di prendere qualche appunto sulle migliori frasi che questo capolavoro dell'inguardabilità ci offre:
  • Dopo un minuto e mezzo di film, ripeto un minuto e mezzo, i due protagonisti da bambini ci deliziano con un “Patria di libertà, patria del coraggio”. Così, a buffo, senza motivo alcuno. E già qua si capisce l'andazzo del film.
  • “Caro Rafe, sapessi quanto mi manchi. È strano trovarsi dall'altro capo del mondo senza di te”. Kate Beckinsale scrive una lettera all'amato Ben Affleck mentre si trova in spiaggia alle Hawaii in bikini, come una influencer su Instagram ante litteram che posta foto al mare con citazioni filosofiche elevate.
  • “Tanti rimproverano voi yankee di non essere entrati ancora in guerra. Per parte mia le dico, che se ce ne sono altri come lei laggiù, guai a chi si troverà a combattere contro l'America”. Perché ecco, gli inglesi stanno in guerra da due anni a farsi ammazzare, ma gli americani ce l'hanno più lungo (di nuovo). Ed è giusto che il comandante inglese lo ammetta.
  • “A Pearl Harbor il fondale è troppo basso per gli aerosiluri e abbiamo reti antisommergibili. Qui c'è un solo pericolo, gli atti di sabotaggio”. Perché si, chi se li incula quei musi gialli, vuoi che ci vengono a cagare il cazzo a casa nostra? (Lo volete capire che ce l'hanno più lungo?)
  • Dulcis in fundo il nostro caro Josh Harnett, che dopo un atterraggio di emergenza in cui si è praticamente reciso la carotide e due colpi in petto sparatigli dai giapponesi, ha comunque il tempo di fare il classico discorsetto pre-mortem che tanto piace agli americani : “è inutile, non ce la farò. Ho tanto freddo, ho tanto freddo. Rafe mi fai un favore? Controlla bene le lettere quando scrivi il mio nome sulla lapide.”
E si potrebbe andare avanti più o meno per tutti i centonovantatre minuti del film, in quanto ogni singola battuta potrebbe essere oggetto di memorabilità, su tutto i dialoghi durante le scene di combattimento in volo. Più che dialoghi di soldati in guerra sembrano quelli miei e dei miei amici mentre siamo sul divano a giocare a Call of Duty.
E alla fine non importa che i giapponesi abbiano ucciso tremila soldati con l'attacco a Pearl Harbor, i nostri prodi sono andati di là con sedici aerei, hanno distrutto due fabbriche e hanno vinto la guerra con quell'attacco a Tokyo. E degli ottanta che parteciparono alla missione suicida la medaglia il presidente la conferisce solo a Ben Affleck, si vede che sul tufo risalta di più. O almeno questo ci dice Michael Bay.

giovedì 6 ottobre 2016

Recensione La Terza Guerra Mondiale - The Zen Circus

Gli Zen Circus sono diventati grandi. Fa strano dirlo per una band alle porte dei vent'anni di carriera e con nove dischi sulle spalle. Ma hanno ormai raggiunto una maturità artistica che fino al disco precedente andava e veniva. Una maturità che gli consente di suonare i dieci brani con solo chitarra, basso e batteria, tale e quale a come lo sentiremo dal vivo. Senza per questo aumentare la complessità del loro lavoro. Ma soprattutto inserendo nel disco dieci brani che sono potenzialmente dieci singoli per la loro forza.
La capacità degli Zen Circus di mettere in musica situazioni di tutti i giorni è da sempre il loro punto di forza, cantando delle nostre debolezze e bruttezze, mettendo in mostra l'enorme capacità cantautoriale di Appino che negli ultimi anni sta uscendo fuori in tutta la sua potenza. Senza per questo lasciare da parte la loro anima divisa tra punk, busker e rock alternativo, che ha fatto la loro fortuna in questi anni.
La Terza Guerra Mondiale, come vanno dicendo fonti ben più autorevoli, è già iniziata. E lo è anche per gli Zen Circus. É una guerra fatta di ignoranza e mancanza di cultura, un conflitto in cui quelli che erano Qualunquisti ora sono diventati populisti (Zingara – Il Cattivista), dove le “Piazze fanno la rivoluzione solo quando sono vuote” (Ilenia), in cui la vita di provincia fa schifo (Pisa Merda) ed è lo specchio di come si vive nel nostro paese. Un paese dove le relazioni umane sono scomparse (La Terza Guerra Mondiale). Una guerra sulle cui macerie camminiamo ogni momento delle nostre vite. Una guerra che ha portato gli Zen ha cantare di una disillusione mai così palpabile come in questo disco. Una guerra soprattutto con noi stessi, come cantano nella splendida L'anima non conta. Un brano “strano” per gli standard dei tre toscani, dichiaratamente pop ma che non perde l'anima degli Zen Circus e che la rende subito riconoscibile a chi li segue. Ma gli Zen tengono anche a rassicurarci che Andrà tutto bene in un finale che esplode in un brano di dieci minuti, assoluta rarità nella produzione della band.
Quelli bravi direbbero che siamo davanti a un disco solido, quadrato e maturo. Io mi fermo alla maturità ormai raggiunta dalla band, che con questo disco ricorda a chi lo dimentica troppo facilmente che nella scena indipendente italiana, gli Zen Circus sono ancora tra i primi della pista.

La mia su Batman v Superman : Dawn of Justice

Considero almeno due film, tra i vari fatti su Batman, alla stregua di capolavori. Il secondo Batman di Tim Burton e il secondo di Nolan rientrano tra i miei 10/20/30/nonsofareclassifiche preferiti. E altri due (il primo Burton e The Dark Knight Rises ) li considero comunque due grandissimi film. Ecco perché la visione di Batman v Superman destava in me una sorta di remora, così come la desta un qualsiasi nuovo disco di una delle mie band preferite. Quindi faccio subito outing: Tra i vari personaggi dei fumetti trasposti al cinema, Batman è di gran lunga il mio preferito.
Ma i miei dubbi nascevano da due principali motivazioni. In primis il mio malcelato odio nei confronti di Superman. In secondo luogo l'uomo a cui è stato affidato il progetto. Quello Zack Snyder che aveva già distrutto (mio parere sia chiaro) Watchmen. Ma anche autore di quella zozzeria rispondente al nome di 300, o quella roba immonda che era Man of Steel.
Non avendo mai scritto nulla riguardante il cinema, a parte di film che riguardano la musica, ho fatto una scaletta mentale in vari punti che proverò a rispettare. Proverò appunto.

PERSONAGGI E INTERPRETI
  • BATMAN : “Il miglior Batman di sempre”. Giuro. Me lo hanno detto e l'ho letto da più parti. Christian Bale e Michael Keaton stanno ancora ridendo dopo averlo letto. Ben Affleck assomiglia più che altro a un pezzo di tufo che viene spostato col muletto in giro per il set a cui dicono le battute da dire e basta, tanto l'espressione è sempre la stessa. Se quando siete in bagno vi guardate a uno specchio, ecco, quella sarebbe l'espressione che ha Affleck per tre ore di film. O più semplicemente è l'espressione che gli è venuta dopo aver letto per la prima volta il copione, senza più riprendersi.
  • SUPERMAN : Il supereroe più anacronistico di tutti i tempi, torna ancor più anacronistico di prima. Stavolta provano a mettergli i dubbi sulle sue azioni, ma durano il tempo di un minuto. E neanche Bruce Wayne che è un genio riesce a capire che Clark Kent e Superman sono la stessa persona, anche se li incontra entrambi faccia a faccia.
  • WONDER WOMAN : Bona, per carità. Nessuno lo discute. Ma il senso della sua presenza?
  • ALFRED : Jeremy Irons ha stampata in faccia la scritta : “Sto qua solo perché con Shakespeare non ce se magna”. La trattativa deve esser andata più o meno così :
Produttori : “Salve Jeremy, non è che verrebbe a fare Alfred nel nuovo Batman?”

Irons : “Mi date 10 milioni di dollari?”
Produttori : “Ok”
Irons : “Oh cazzo hanno accettato”
E avrà passato tutte le riprese a pensare : “eppure Michael Caine mi aveva avvisato...”

  • AQUAMAN : Un minuto in scena per entrare diritto nel cuore. La miglior imitazione dello Zoolander sirenetto mai vista.

  • DOOMSDAY : Soprassediamo.
  • LEX LUTHOR : Ecco. Parliamone. Batman e Superman soggiogati e manipolati da un poco più che adolescente. Messi uno contro l'altro da un personaggio che non fa che ripetere che Superman non è un Dio ma un demonio. Che il Lex Luthor di Zack Snyder sia un santone? Una critica alle sette religiose che tanto vanno di moda in America? Oppure l'aver usato Jesse Eisenberg (che in altri film ha dimostrato di essere anche un bravo attore) vuole farci intendere che il nemico è Facebook? Ai posteri l'ardua sentenza...

TRAMA

Di preciso non ho capito le motivazioni che spingono Batman a fare la guerra a Superman. La spiegazione che ci fornisce Snyder mi sembra un pochino labile (ha portato la guerra aliena sulla terra e a me non sta bene). Propenderei per altre ipotesi che guardando il film escono fuori. In primis Bruce Wayne rosica quando Superman demolisce il suo grattacielo, e avendo visto tutto il mondo perché il grattacielo è crollato, non può fare l'impiccio con l'assicurazione. Seconda ipotesi, e per me la più credibile, è che Batman “c'ha i pugni nella mani”(qua chi non coglie la citazione può informarsi), in pratica una sorta di gara a chi ce l'ha più lungo. E dopo uno scontro epico (una delle poche cose decenti del film è il combattimento tra Batman e Superman), quando Batman è lì lì per ammazzare Superman, il colpo di scena. L'uomo pipistrello scopre che le loro madri si chiamano allo stesso modo e capisce che l'alter ego di Clark Kent è nel giusto, e scoppia l'amore tra i due. Bene, bravi, bis.


Un film d'azione/supereroistico/fantascienza per funzionare alla grande, deve avere un grande cattivo. Perché diciamolo, del buono non frega un cazzo a nessuno. In Dawn of Justice il cattivo è totalmente assente. Si, ok, Lex Luthor e Doomsday. Uno vuole far scannare Batman e Superman perché boh, non si sa. Si fa aiutare da un mafioso russo (sugli americani il russo cattivo funziona sempre) e crea Doomsday. Qualcuno mi spiega perché da un umano e un alieno umanoide esce fuori un mostro che urla e mena senza sapere neanche perché lo sta facendo? Ah perché è un mostro cattivo costruito per uccide, con il carisma di un comodino. In pratica i cattivi di questo film li dimentichi durante i titoli di coda.
E assente in questo film sono due cose fondamentali, soprattutto se si parla di una storia inventata che parla di supereroi. Una è la sospensione d'incredulità. Vorrei conoscere una singola persona che ha visto il film che ad ogni azione non fosse in grado di dire cosa sarebbe successo immediatamente dopo. In secondo luogo la totale mancanza d'ironia. Ragazzi (si Snyder parlo con te) è un film di supereroi, gente in calzamaglia che salva il mondo dai cattivi. Già non è credibile di suo, se ci metti un tono e una solennità che neanche il Macbeth, tre ore diventano lunghe da superare.

REGIA

Zack Snyder, basta, davvero.

Potrei parlare ancora per ore di tutto quello che mi ha colpito in questo film. In realtà la prima stesura di questo post era lunga più del doppio e magari quando uscirà l'edizione Blu-Ray metto pure il resto (si ce l'ho con voi case di produzione che tagliate mezz'ora di film per far comprare i film dopo che li abbiamo già visti al cinema).

Avrei potuto parlare di Batman che marchia a fuoco i delinquenti per farli punire in carcere (perché? Qual è il senso?), Batman che uccide, Superman che sopravvive a un'esplosione ma nulla può contro una coltellata, degli errori tecnici di Snyder, del senso di vomito durante alcune scene e tante altre cose. Solo che inizio già a sentire i fan di Batman che mi suonano al citofono, quindi è meglio che mi fermi.

venerdì 29 luglio 2016

Forrest Gump - Colonna Sonora

Cosa rende un film un capolavoro?
Sicuramente gli attori, la regia, una parte fondamentale è la storia, e in fondo, ma non per importanza, la colonna sonora.
Trovare la musica giusta che accompagni le immagini, non è per nulla una cosa semplice.
Ma quando si riescono a trovare i brani giusti su cui poggiare le immagini, il giudizio sul film potrebbe addirittura cambiare radicalmente.
Forrest Gump è, per me, l'esempio più lampante di come le immagini e le canzoni si fondano insieme per dare origine a un capolavoro.
Il film racconta 30 anni di vita di Forrest, anni che vanno dai '50 agli '80, e le scelte musicali rispettano totalmente quegli anni. Se si scorrono i titole delle canzoni che accompagnano il film, si nota una ricercatezza quasi maniacale. Ogni brano rispecchia quasi fedelmente l'anno in cui si svolge la storia. Si passa da Elvis nella fine degli anni 50 per arrivare ai primi anni 80 che iniziano a segnare la fine della storia, così come la fine del rock inteso in un certo modo.




Il periodo che il film copre è sicuramente uno dei più floridi per la musica, soprattutto statunitense, ma principalmente è stato un periodo di forti scontri sociali, che il film affronta con gli occhi innocenti di Forrest.
Vietnam, movimento Hippie, razzismo sono tematiche che spesso hanno fatto capolino nella musica di quel periodo, con i musicisti in prima linea per cercare di creare un mondo migliore.
L'arrivo in Vietnam di Forrest e Bubba è accompagnato da uno dei più grandi inni anti-Vietnam mai composti, quella Fortunate Son che ha dato successo mondiale ai Creedence Clearwater Revival. Oppure un Forrest coinvolto suo malgrado nelle manifestazioni Hippie del '68, che ritrova per caso la su Jenny, con in sottofondo le note dei Jefferson Airplane (Volunteers), di Scott McKenzie (San Francisco) e del musical Hair, veri e propri inni per i movimenti del '68. Ovviamente non vengono dimenticati quegli artisti che dominavano la scena in quel periodo (Hendrix, Doors) e cose più leggere (Beach Boys, Mamas and Papas, Byrds).


Poi gli anni passano, la rabbia diminuisce, le proteste anche e per Forrest inizia l'avventura come pescatore di gamberi come promesso a Bubba. Con la scena che si sposta nel profondo sud degli States, anche i suoni vanno a cambiare, prediligendo il country e il gospel delle chiese frequentate dal protagonista e dal Tenente Dan per sperare in un aiuto divino per la loro pesca.
Con l'Alabama a fare da sfondo non poteva mancare la canzone che più racchiude le sonorità di quelle terre, quei Lynyrd Skynyrd (Sweet Home Alabama) che l'hanno celebrato e che erano i portabandiera di quel Southern Rock che regnava incontrastato in quelle zone.
Ma Forrest non è fatto per restare fermo e dopo l'ennesimo abbandono da parte di Jenny, inizia a correre. Una corsa che lo porterà avanti e indietro per gli Stati Uniti per tre anni, e forse è questa parte del film in cui le immagini e la musica si fondono meglio a creare un'unica sensazione. Otto minuti di film, in cui l'alternanza di quattro brani, Running On Empty (Jackson Browne), Go Your Own Way (Fleetwood Mac), On The Road Again (Willie Nelson), Against The Wind (Bob Seger) si uniscono agli spettacolari paesaggi che gli Stati Uniti ci propongono.


L'unico brano originale è la Forrest Gump Suite creata dal compositore Alan Silvestri (Ritorno al Futuro, Cast Away, Avengers) che fa capolino in tutti gli eventi importanti della vita di Forrest (primo incontro con Jenny, conoscenza del piccolo Forrest, prima corsa da bambino) con la delicatezza di una piuma, la stessa che ci introduce e ci porta via da questo meraviglioso film.

domenica 19 giugno 2016

Johannesburg - Mumford And Sons

 Stanis La Rochelle non sentiva l'Africa,  probabilmente perché stava girando a Pomezia.  Magari se il fiume Ngube fosse stato in zona  Aprilia, l'Africa si sarebbe sentita di più. O se i  mezzi a disposizione della produzione degli Occhi  del cuore avessero permesso di girare nella savana,  sarebbe venuta fuori una scena memorabile.

 Siccome i Mumford and Sons hanno i mezzi per  andare a registrare direttamente in Africa, hanno  preso armi e bagagli e sono andati a registrare un  EP direttamente a Johannesburg. O magari hanno  solo approfittato del tour che passava da quelle  parti per collaborare con alcuni artisti del posto.

Ed è stata una buona occasione per fermare il processo di Coldplaizzazione che era partito dal precedente disco Wilder Mind. Cinque brani in cui i quattro ragazzotti inglesi hanno voluto sperimentare qualcosa di totalmente diverso dal solito, con un risultato decisamente buono.

Ma di esperimento trattasi, e tale resterà. Così come negli Occhi del Cuore solo una puntata era lontano da Villa Orchidea, anche i Mumford and Sons dopo questo EP torneranno nella loro zona confortevole, quella che sta accanto allo studio di registrazione dei Coldplay.
Però mi piace immaginare Marcus Mumford che gira per le sterminate pianure africane vestito come un novello David Livingstone, col suo bel cappellone di paglia, in attesa di un'ispirazione che arrivi dal nulla, come la voce che spingeva Corinna Negri verso il fiume Ngube.


 

venerdì 17 giugno 2016

Recensione The Gateway - Red Hot Chili Peppers

Ovvero qualcuno salvi il soldato Flea


Disco in studio. Tour. Disco Live. Raccolta. Ripeti.
Disco in studio. Tour. Disco Live. Raccolta. Ripeti.

I Red Hot Chili Peppers sono entrati nel circolo vizioso che colpisce tutte le storiche band arrivate a un determinato punto della carriera. Idee vicine allo zero, casa discografica che obbliga a pubblicare qualcosa e loro che eseguono. Quando invece avrebbero solo voglia di fare surf sulle spiagge dell'amata California.
"No, ma stavolta hanno fatto un disco Prog" ( giuro che me lo hanno detto). Ecco, a chi me lo ha detto poi consiglierò in privato qualche disco per capire cos'è il Prog.

La formula dei RHCP è abbastanza semplice. Si sono detti : “Californication ha fatto il botto, quindi continuiamo a rifare quello”. E se Californication era davvero un gran disco, da By The Way in poi si è intrapresa una discesa che non si appresta a finire. Tanto i loro sold out continuano a farli e questo gli basta. In The Gateway sono riusciti pure a perdere il groove che li ha sempre contraddistinti, come se avessero composto i brani e poi li avessero registrati al rallentatore. Come quando con il videoregistratore andavi indietro piano.

Forse il momento più alto dei RHCP negli ultimi anni


Il soldato Flea ci prova a tenere in piedi la baracca, con la solita sezione ritmica impeccabile, ma sono vani sforzi, quindi non sorprende il fatto che per fare della musica più nelle sue corde abbia deciso di andare a suonare il campanello di casa Thom Yorke. E il risultato è più che discreto, diciamo anche ottimo.
The Getaway è un disco discreto, che non si eleva dal mucchio della produzione degli ultimi quindici anni della band, che farà felici i fan e lascerà indifferenti gli ascoltatoti occasionali.
Tranquilli che tanto il prossimo tour è già tutto esaurito e tra cinque anni avremo il dodicesimo disco dei RHCP, che sarà l'ennesimo clone degli ultimi cinque dischi. Uno di quegli album che li ascolti e quando è finito hai una sensazione di déjà vu, la stessa che avevi avuto cinque anni prima e ancora altri cinque anni prima.

martedì 14 giugno 2016

Recensione Afterhours - Folfiri o Folfox

Nell'ultimo mese e mezzo Manuel Agnelli è diventato l'artista di cui più si parla in Italia.
Era scontato che la decisione di prender parte a X Factor avrebbe fatto discutere, e il morigerato popolo del web non ha fatto mancare la propria reazione sdegnata. Quindi tra un “venduto” e un “ha fatto bene”, dalla prossima stagione televisiva Agnelli avrà modo di far parlare ancora di sé, vista anche l'innata capacità di non far nulla per risultare simpatico alle folle.
Gli Afterhours arrivano a questo nuovo disco dopo un periodo particolarmente difficile, tra cambi di formazione ( Fabio Rondanini e Stefano Pilia le new entry alla batteria e alla chitarra), ma soprattutto perdite dolorose che solo l'asse portante di questo nuovo Folfiri o Folfox.

Tu giurami che noi, non moriremo mai. Avevamo un patto io e te, ma l'hai tradito tu.”

Folfiri e Folfox, per chi non lo sapesse, sono nomi di due cicli chemioterapici. Cancro che ha portato via il padre di Agnelli e che è la base di partenza di questo undicesimo disco della band milanese. Un disco di rottura rispetto a tutto quello che la band ha prodotto in quasi tre decenni di carriera. Il disincanto di Padania è un lontano ricordo, così come la foga di Germi o Hai paura del buio? ( celebrato alla grande qualche tempo fa), per lasciare spazio a un misto di inquietudine e angoscia. Che già dall'apertura di Grande fanno capolino, soprattutto per quel che riguarda testi e cantano di Agnelli. Tanto pianoforte, tante chitarre acustiche, poche distorsioni. E spazio per qualche sperimentazione musicale a cui la band ci ha già abituato da qualche disco.

Appunto una rottura con il resto della discografia degli Afterhours. Ognuno il lutto lo elabora a proprio modo, Agnelli ha deciso di farlo in diciotto brani. Una rottura che è un pezzo che si incastra alla perfezione nel puzzle della produzione della band. E che farà storcere il naso ai fan degli Afterhours, che avevano già iniziato a protestare da un paio di dischi a questa parte. Ma Agnelli oltre a non far nulla per risultare simpatico, non fa neanche nulla per far volere popolare, ma fa quello che pensa sia il meglio per la sua band. E se non saranno tutti soddisfatti non penso gli causerà dei problemi, visto che questo lavoro è forse il più intimo tra tutti quelli che sono usciti dalla sua mente. E quello dall'impatto meno diretto. Quindi forse i fan che ora lo criticheranno saranno i primi a rivalutarlo, per quel che merita, tra qualche anno.