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venerdì 29 novembre 2013

Recensione Ligabue - Mondovisione

Decimo album in studio per il cantante di Correggio, tre anni dopo Arrivederci, Mostro! Che aveva avuto ottimi riscontri sia a livello di vendite che di critica. Mondovisione è stato anticipato dai due singoli Il Sale Della Terra e Tu Sei Lei.


Ligabue è ormai prossimo ai venticinque anni di carriera, e tutti questi anni sulla scena iniziano ad avere il loro peso. In Mondovisione è un'artista molto diverso da quello a cui eravamo abituati. In questo disco probabilmente manca l'energia che da sempre contraddistingue il cantante emiliano, per lasciar posto a momenti molto più riflessivi e intimi. Le chitarre iniziano a diminuire per lasciare sempre più spazio al piano, il che già come sonorità segna un passaggio a vie più delicate, forse anche sintomo di una stanchezza e una minor voglia di comporre cose nuove.


Mondovisione è uno dei dischi più difficili da ascoltare tra quelli del cantautore di Correggio. Se si è in cerca del singolo da Hit Parade, quasi sicuramente si farà difficoltà a trovarlo, così come sarà difficile trovare pezzi orecchiabili e di facile ascolto. È anche difficile trovare qualcosa che non sia stato già sentito nei precedenti lavori del Liga, ma questo ai fans non interesserà minimamente. Si procede tra ballate e pezzi più movimentati, tra cui come detto sono pochi i momenti che spiccano. L'unica nota di merito va sicuramente data a La Terra Trema, Amore Mio delicata dedica alla sua Emilia devastata dal terremoto lo scorso anno.


Un disco di difficile ascolto, in cui si può notare una certa stanchezza da parte di Ligabue, ma che non scoraggerà i fan ad acquistare il disco solo per il nome riportato in grassetto sulla copertina. Un disco che dovrebbe far riflettere per il futuro, dove piuttosto che pubblicare per rispettare dei tempi discografici, si potrebbe provare a proporre qualche idea nuova, piuttosto che continuare a ripetere la stessa cosa per anni e anni.


Tracklist :
1 Il muro del suono
2
Siamo chi siamo
3 Il volume delle tue bugie
4 La neve se ne frega
5 Il sale della terra
6 Tu sei lei
7 Nati per vivere (adesso e qui)
8
La terra trema, amore mio
9 Per sempre
10 Ciò che rimane di noi
11 Con la scusa del r’n'r
12 Sono sempre i sogni a dare forma al mondo

lunedì 25 novembre 2013

Recensione The Beach Boys - Pet Sounds

A inizio anni '60 la California era diventata famosa per il suo stile liberale e per la voglia di divertirsi dei suoi cittadini. L'espressione massima di questo spirito fu il movimento Surf, che partendo dalle spiaggie iniziò a invadere tutti i giovani californiani. Tra loro spiccarono una band che fece del Surf il proprio stile di vita. I Beach Boys iniziarono presto a scalare le classifiche e a sfidare addirittura i Beatles per la testa delle hit parade.
Ma a cavallo tra il 1965 e il 1966 cambiò tutto. Il leader dei Beach Boys Brian Wilson abbandonò l'attività live, sia per paura di esibirsi che per l'insorgere di primi avvisi di instabilità mentale. Si iniziò a dedicare principalmente alla composizione in studio. E l'uscita di Rubber Soul dei Beatles cambiò radicalmente la concezione musicale di Wilson.
Wilson decide di cambiare completamente la struttura musicale fino a quel momento seguita dai ragazzi californiani, andando a comporre qualcosa di totalmente diverso. Addio a quel pop frivolo che aveva segnato la loro carriera fino a quel momento, ed ecco arrivare armonie vocali e musicali fino a quel punto sconosciute ai Beach Boys. Nonostante la contrarietà del resto della band che sarebbe voluta restare su binari più consoni al loro passato.
Ma il risultato è uno di quei pochi dischi che si possono definire come capolavoro. Quattordici brani da ascoltare quasi all'infinito, senza mai una caduta in basso, e una dimostrazione totale di come andrebbe trattata la musica pop. D'accordo la musica leggera, ma può essere anche di grande spessore, come in questo caso. Pop che si avvicina alla psichedelia e al rock, senza mai lasciare però la strada maestra. E un intreccio di voci e musica che si accorpano l'un con l'altro quasi a creare una sorta di magia sonora, da cui è difficile staccarsi.



Uno dei dischi fondamentali nella storia della musica, uno che se non si è mai ascoltato bisognerebbe subito porre rimedio. Se nel 1966 qualcuno ha anche solo dubitato che esistesse una band migliore dei Beatles, la colpa è di questo album. 

sabato 23 novembre 2013

Recensione Black Sabbath - Black Sabbath Album

Già la copertina evoca brutti presagi. Questa figura nera in mezzo a una tranquilla campagna inglese, una sorta di strega pronta per un Sabba, sembra portarci già all'interno del disco. E le campane che fanno da intro al primo brano non fanno altro che calarci ancor più dentro un mondo fatto di paura e terrore.
Paura e terrore che fanno capolino appena comincia il disco, con delle campane che ci accolgono in un percorso di inquietudine che viene rispecchiata dal suono della band inglese. I quattro ragazzi di Birmingham nascono anche loro dal Blues, ma creano un qualcosa di ancora sconosciuto all'epoca, che poi nel corso degli anni sarà ribattezzato Heavy Metal. Un suono duro, potente e cupo guidato dalla chitarra di Tony Iommi, che accoppiato alla voce di Ozzy Osbourne, che sembra venire direttamente da un altro mondo, vanno a sconvolgere per sempre la musica come la si era concepita fino a quel punto.
Ovviamente essendo un disco di debutto parecchie sono le cose buone, così come nel tempo avranno modo di sistemarne altre, ma pezzi come Black Sabbath, Wicked World e N.I.B. Furono dei pezzi che fin da subito fecero capire la pasta di questi quattro ragazzi.


Sicuramente non il miglior disco della band inglese, che con il tempo hanno saputo fare molto di meglio, ma comunque uno dei dischi più importanti della storia per l'influenza che ha avuto sulle future generazioni di musicisti, considerando anche il fatto che lo troviamo alla base della nascita di numerosi sottogeneri musicali, soprattutto Metal.

Tracklist :
  1. Black Sabbath
  2. The Wizard
  3. Behind The Wall Of Sleep
  4. N.I.B.
  5. Evil Woman
  6. Sleeping Village
  7. The Warning
  8. Wicked World

mercoledì 20 novembre 2013

Recensione Led Zeppelin - Led Zeppelin I

Jimmy Page l'unico superstite dei quasi defunti Yardbirds, decise di mettere in piedi una propria band per portare a termine il tour che la band inglese aveva in programma, per poi ribattezzare la band Led Zeppelin, sembra su suggerimento di Keith Moon degli Who.
Nel 1969 vede la luce il primo album in studio con Page alla chitarra, Robert Plant alla voce, John Paul Jones al basso e tastiere e John Bohnam alla batteria. Il repertorio della band era per la maggior parte composto da pezzi degli Yardbirds e vecchi blues, il tutto rielaborato dalla sapiente mente di Jimmy Page.
Già dall'attacco di Good Times, Bad Times si inizia a capire che strada prenderà il disco, radici affondate nel Blues con una spinta però completamente diversa rispetto a quanto già sentito in precedenza. Pezzi come I Can't Quit You Baby e How Many More Times non fanno altro che confermare questo sound che sarò il marchio di fabbrica per la band negli anni a venire.
Ma il disco è contraddistinto anche da brani più estemporanei, che cercano di attraversare altre idee creative. Baby, I'm Gonna Leave You si fa forte del canto quasi sofferto di Plant che accompagna il delicato arpeggio di Page per poi esplodere definitivamente. Communication Breakdown è una vera e propria scossa elettrica a metà del disco, che renderà questo suono il vero marchio di fabbrica degli Zeppelin, ma è con Dazed And Confused che la band tira fuori il meglio di se stessa. Una rivisitazione di un classico folk, in cui a prendersi la scena è Jimmy Page con il suo infuocato assolo, brano che nelle esibizioni dal vivo poteva a durare anche oltre mezz'ora, in cui Jimmy Page dominava il palco.


Uno dei dischi a cui dobbiamo molta della musica che abbiamo avuto negli anni a venire. Anche non inventando nulla a livello compositivo, il nuovo suono lasciò in molti a bocca aperta, e furono parecchi a ispirarsi a questo lavoro per le proprie composizioni. Uno dei dischi che hanno fondato l'Hard Rock, che per forza di cose è da annoverare tra i più grandi di sempre.

Tracklist :

  1. Good Times Bad Times
  2. Babe, I'm Gonna Leave You,
  3. You Shook Me,
  4. Dazed And Confused,
  5. Your Time Is Gonna Come,
  6. Communication Breakdown,
  7. Black Mountain Side
  8. I Can't Quit You Baby
  9. How Many More Times

domenica 17 novembre 2013

Recensione Deep Purple - In Rock

Dopo tre dischi tra alti e bassi, e una variazione significativa della formazione, nel 1970 i Deep Purple pubblicano il loro quarto album in studio, il primo con la celebre Mark II.

Tra il 1969 e il 1970 si è assistito alla nascita di un genere musicale. L'Hard Rock vede la luce grazie a tre dischi fondamentali. Led Zeppelin I, l'omonimo disco di debutto dei Black Sabbath e il quarto disco dei Deep Purple, In Rock. Dopo tre dischi dominati dal Prog e dall'Hammond di Jon Lord, il cambiamento di rotta fu radicale con l'arrivo di Ian Gillan alla voce e di Roger Glover al basso. Il disco inizia a tracciare la strada che porterà gli anni '70 a essere il periodo d'oro del Heavy Metal. Il suono è volutamente sporco e ruvido, e già dall'intro di Speed King si intuisce la nuova strada presa dalla band. Il disco è pervaso da una scossa che attraversa tutto il gruppo, sembra quasi che ognuno di loro sia intenzionato a mettere in mostra il meglio del proprio repertorio, quasi a sfidare gli altri musicisti. Brani come Speed King e Flight Of The Rat entrano di diritto tra le linee guida per il genere musicale appena nato. Ma l'apice è Child In Time, dieci minuti che partono delicatamente in un crescendo fino ad esplodere. La voce di Gillan tocca altezze impressionanti, così come impressionante è la sfida a suon di chitarra e Hammond che si crea tra Blackmore e Lord. Sembra quasi che si inseguano fino ad arrivare a sovrapporsi e intrecciarsi, creando un muro sonoro con pochi eguali al mondo.


Come detto Deep Purple In Rock è tra i padri fondatori del nascente Hard Rock, ma risulta anche essere il punto più alto a livello artistico dei Deep Purple. L'inizio di una storia fatta di enormi successi e l'ennesima dimostrazione che se il talento c'è prima o poi esce fuori, anche se bisogna aspettare il quarto album.


Tracklist :
  1. Speed King
  2. Bloodsucker
  3. Child in Time
  4. Flight of the Rat
  5. Into the Fire
  6. Living Wreck
  7. Hard Lovin' Man



venerdì 15 novembre 2013

Recensione Francesco Baccini - Nomi e Cognomi

Francesco Baccini è sempre stato un po' snobbato dal pubblico e dalla critica italiana. Nel 1992 all'uscita di questo disco aveva alle spalle già due album in studio e soprattutto una collaborazione con Fabrizio De André per Genova Blues. Lo stile scanzonato e irrisorio delle precedenti produzioni sfocia in questo album in cui Baccini si prende gioco e stigmatizza vizi e comportamenti di diversi personaggi sia reali che inventati, e trova modo per descrivere un ritratto anche di se stesso.
Il filo conduttore del disco è la grande ironia con cui il cantante genovese va a punzecchiare i diversi personaggi presi in considerazione. La difesa a spada tratta nei confronti di Giulio Andreotti è l'esempio più lampante, ma anche le giustificazioni trovate per la tossicodipendenza di Diego Armando Maradona ( Tutti tirano lo sai... ). Non mancano colpi diretti anche ai colleghi come Antonello Venditti e Adriano Celentano colpiti per la loro poetica o per il loro fare da guide spirituali.
Quando una persona è ironica è disposta anche a farla su se stesso, infatti Francesco Baccini è una critica al suo modo di fare, soprattutto nei rapporti con l'altro sesso. Mago Ciro e Margherita Baldacci sono due protagonisti inventati, creati per andare a criticare altre situazioni, vuoi che siano i fantomatici maghi televisivi, o che siano i suoi colleghi con canzoni smielate e disperate. Ma il punto più alto del disco è senz'altro la ballata che Baccini dedica a Renato Curcio, ex brigatista, in cui con voce e piano si lascia da parte l'ironia per riflettere sugli anni di piombo.



Uno dei dischi che negli anni '90 sono passati più sottotraccia, ma che dimostrano un'artista nel pieno della sua forma compositiva, un disco che in molti ricordano per il fatto di fare nomi e cognomi degli attaccati, quando in realtà andrebbe ricordato dal punto di vista artistico, vista la varietà musicale offerta.  

mercoledì 13 novembre 2013

Recensione Guns N'Roses - Appetite Of Destruction

Ci sono album in cui fin dai primi secondi si può capire che saranno dei successi. Appetite
For Destruction è uno di questi. E basta il riff di Welcome To The Jungle per rimanere subito a bocca aperta. In un periodo dominato da band Heavy patinate, e che pensavano più all'apparenza che alla musica, i Guns riportano tutti con i piedi per terra, trascinati da un sound che una volta ascoltato è difficilmente dimenticabile.
I Guns N'Roses vogliono portarci nel loro mondo, in quella Los Angeles di metà anni '80, dove a regnare sono eroina e puttane, ed è questa la giungla per cui ci danno il benvenuto. E proprio da quella giungla, o quella Paradise City se preferite, che prendono spunto la maggior parte dei brani del disco. Si parla di droga, di alcool, di donne, il tutto con un ritmo che deve molto all'Hard Rock più classico, così come al punk, soprattutto per la violenza sia musicale che personale dei musicisti.
Il disco è portato avanti da una delle coppie più discusse della storia della musica. Slash e Axl Rose qua sono nel periodo migliore delle loro carriere, hanno voglia di suonare insieme e di divertirsi, ma soprattutto di divertire il pubblico.
Mano mano che si ascolta questo album sembra di trovarsi di fronte a un Greatest Hits più che a un album di debutto. Ogni singolo brano ha le potenzialità per essere considerato il migliore del lotto, ma ovviamente alla lunga ci sono quelli che spiccano di più rispetto agli altri. La già citata Welcome To The Jungle, Paradise City, Sweet Child O'Mine si rivelano degli istant classic, già dal primo ascolto ci si rende conto di essere dinnanzi a devi pezzi colossali.


Uno dei gruppi più trasgressivi di sempre, ci regala al debutto anche uno dei dischi migliori di sempre. Una pietra miliare nella lunga storia dell'hard rock, e il rilancio del genere in un periodo in cui la musica rock stava andando da altre parti. 

martedì 12 novembre 2013

Recensione The Who - Tommy

Nel 1969 gli Who sono già sulla cresta dell'onda a seguito di dischi come My Generation e The Who Sell Out e grazie alle loro incendiarie esibizioni dal vivo, che si concludevano sempre con la distruzione degli strumenti sul palco.
Pete Townshend inizia ad avere in mente una idea tra il folle e il rivoluzionario. Narrare una storia in musica, la storia di un bambino che a seguito della visione di un omicidio diventa sordo, cieco e muto. Ventiquattro brani lungo la vita di questo ragazzo, dalla nascita alla morte del padre per mano dell'amante della madre e al conseguente isolamento dal mondo. Per passare poi al percorso per tornare alla normalità, attraversando violenze familiari e cure più o meno alternative. Il tutto per arrivare ad una libertà, almeno apparente.

Il disco è la prima vera Opera rock che il mondo ricordi. Il trattare ogni brano come un pezzo di un puzzle fino a completarlo era una cosa mai provata prima ma che ha cambiato per sempre la concezione del disco come opera completa. E Tommy mette in grande evidenza anche le capacità di ognuno di loro, andandoci a regalare dei capitoli che saranno per sempre nella cultura popolare. Brani come Pinball Wizard, Acid Queen, Go To The Mirror faranno la fortuna degli Who negli anni a venire, ma anche di quelli che riproporranno loro versioni degli stessi brani.


Un pezzo di storia, nonché apice della carriera per la band inglese, almeno per quel che riguarda la produzione con la formazione originale. Sembra che tutti fossero ispirati al meglio, e il risultato è un disco che porterà numerose band a creare altre opere rock, tenendo però sempre a mente che il punto di partenza è questo. 

giovedì 7 novembre 2013

Recensione Fabrizio De Andrè - Non Al Denaro, Non All'Amore Né Al Cielo

Per il suo quinto disco in studio Fabrizio De Andrè decise di mettere in musica una delle
opere letterarie che più lo avevano influenzato nel corso della sua formazione culturale. L'Antologia di Spoon River è una raccolta di poesie con protagonisti i sepolti sulla collina di Spoon River appunto.
È un disco che racconta storie di emarginati e reietti, con i loro vizi e le loro virtù, ma è sui primi che De Andrè decide di porre maggiormente l'accento, avendo sempre dichiarato di sentire quei personaggi come un pezzo di se stesso.
Il disco inizia con la stessa introduzione del libro stesso, La Collina in cui si vanno a presentare i tutti i personaggi che in un modo e nell'altro sono finiti sepolti sulla collina di Spoon River. E dalla collina si parte per un viaggio tra questi personaggi ma soprattutto è un viaggio nell'animo umano,
con tutti i suoi sentimenti, mettendone in risalto quelli spesso considerati più negativi. Si parla di invidia, quella provata da chi viene considerato pazzo perché non riesce a esprimersi come gli altri ( Un Matto ) o quella provata da un nano nei confronti della statura degli altri che lo portano a vendicarsi di costoro una volta divenuto giudice ( Un Giudice ). Si tratta di menzogne che portano un medico a vendere pozioni miracolose ( Un Medico ) e ancora di invidia provata da un malato di cuore verso la vita normale che può condurre chi non ha il suo stesso handicap ( Un Malato di cuore ). Il tutto si chiude con una storia di vizi, quella di un musicista che “offrì la faccia al vento, la gola al vino e mai un pensiero non al denaro non all'amore né al cielo...” che fornisce anche il titolo al disco ( Il Suonatore Jones ).



Un percorso quasi onirico, che attraverso i sentimenti di questi uomini, ci porta a conoscere varie sfaccettature della personalità umana, ma più di tutto ci regala un De Andrè che partendo da delle poesie ne riesce a creare altre di egual bellezza, elevandolo ancora una volta tra i massimi esponenti della poesia in Italia nel secondo dopoguerra.

mercoledì 6 novembre 2013

Recensione Francesco Guccini - Via Paolo Fabbri 43

Sesto album in studio per Francesco Guccini, siamo nel 1976 ed arriva dopo due dischi in contrasto tra loro, lo straordinario successo di Radici e il mezzo flop di Stanze di Vita Quotidiana.
Ormai Guccini è uno dei più affermati cantautori del panorama italiano, e prende spunto dalla sua casa dell'epoca ( Appunto in Via Paolo Fabbri 43 a Bologna ) per raccontare storie di vita quotidiana, come delle piccole istantanee di quello che può accadere in un qualsiasi palazzo di una qualsiasi città. Si parte così con Piccola Storia Ignobile, canzone sull'aborto, in cui Guccini racconta una tipica situazione di quegli anni, con reazioni dei vari protagonisti a quella gravidanza non voluta. Il Pensionato è un altro spaccato di quotidianità, con questo anziano ormai solo che attende solamente il giorno in cui tutto avrà fine. Come sempre sono gli emarginati ad attirare Guccini. Altro spaccato su quel palazzo è Via Paolo Fabbri 43, e il protagonista altro non è che Guccini stesso. La sua vita che si svolge principalmente di notte e raccontata con toni ironici immaginando altri stili di vita. La notte sarà anche il tema centrale di Canzone Di Notte N°2, canzone di opposizione se ne esiste una, una poesia contro qualsiasi tipo di oppressione e violenza.
Stanza di Vita Quotidiana aveva ricevuto critiche molto negative, tra cui una di Bertoncelli sulla rivista Gong stroncò l'album. Alla lettura di questa recensione, nell'impeto del momento, Guccini compose L'avvelenata. Una canzone in cui Guccini ne ha per tutti, dai musicisti suoi colleghi, alla critica musicale ed anche per i fan.



Un disco che non fa altro che attestare Guccini tra i più grandi che abbiamo mai avuto in Italia. È forse il disco in cui si può sentire il vero Guccini, quello della Bologna notturna, delle osterie, delle canzoni con gli amici, senza però mai togliere lo sguardo dal mondo reale come quello del pensionato, che ci offre delle fotografie che Guccini è maestro a mettere in musica. 


Tracklist
  1. Piccola Storia Ignobile
  2. Canzone Di Notte N.2
  3. L'Avvelenata
  4. Via Paolo Fabbri 43
  5. Canzone Quasi D'Amore
  6. Il Pensionato

martedì 5 novembre 2013

Recensione Pearl Jam - Ten

Nel 1991 la scena di Seattle sta per esplodere. Nirvana, Soundgarden, Alice in Chains, Green River, Mudhoney stavano per andare a conquistare il mondo. Un anno prima dalle ceneri dei Mother Love Bone erano nati i Pearl Jam. Inizialmente conosciuti come Mookie Blaylock ( giocatore di basket NBA il cui numero di maglia era il 10, Ten appunto ), sono l'unione di una parte dei Mother Love Bone con un ex benzinaio di San Diego, che dopo degli scambi di nastri si trasferì a Seattle per prendere il posto da frontman per la nascente band.
Se il Grunge a inizio degli anni '90 è stato il movimento dominante nel mondo musicale, una buona parte del merito va data a questo disco. Una incrocio tra la rabbia adolescenziale che il grunge predicava e la stoffa da grande rock band. Pezzi che all'istante fecero capire che ci si trovava di fronte a qualcosa di storico.
Un disco che lascia quasi senza respiro per la grandezza dei pezzi proposti. Alive, Even Flow, Once, Jeremy, Porch anche ad anni di distanza il solo pensiero di questi brani uno dopo l'altro nello stesso album non può che far pensare a un capolavoro. E poi lei, Black, a tutt'oggi ancora una delle più belle ballate mai scritte. Il tutto corredato dalla voce di Eddie Vedder che darebbe un senso a dei versi anche se fossero i più banali del mondo.


Uno dei debutti più folgoranti che la storia della musica ricordi, al livello dei Led Zeppelin o dei Guns 'n Roses, che ha gettato le basi per il successo del Grunge, ma soprattutto per rendere i Pearl Jam un pezzo di storia contemporanea. 

Tracklist :

  1. Once
  2. Even Flow
  3. Alive
  4. Why Go
  5. Black
  6. Jeremy
  7. Oceans 
  8. Porch
  9. Garden
  10. Deep
  11. Release

lunedì 4 novembre 2013

Recensione Beatles - Please Please Me

Primo album per i Beatles datato 1963, arrivato a seguito dei primi due singoli Love Me Do e la titletrack Please Please Me. Soprattutto l'album ebbe il traino del secondo singolo che li portò per la prima volta al numero 1 delle classifiche. Il disco segue lo standard di come venivano prodotti i dischi in quegli anni, qualche canzone inedita e una serie di cover che arrivavano la maggior parte delle volte dagli USA. E sono gli inediti presenti a fare la differenza, specialmente per il fatto che sono le prime vere canzoni dei Beatles.
I Saw Her Standing There, Please Please Me, Love Me Do sebbene considerato ad anni di distanza come delle prove in vista di quello che poi sarebbero diventati i Beatles, iniziano a dare una dimostrazione del talento creativo del duo McCartney/Lennon che poi sfocerà nei successivi sette anni che faranno la storia. Non si può non citare Twist And Shout che anche se è una cover, nella versione dei Fab Four ha fatto ballare milioni di persone.


Quasi sicuramente nessun fan dei Fab Four citerà mai Please Please Me tra i migliori dischi della band di Liverpool, ma tutti siamo coscienti del fatto che questo è il punto d'inizio, dove tutto ha iniziato a prendere forma. I lavori successivi hanno tutti uno spessore nemmeno paragonabile a questo, ma già qui abbiamo brani con cui chiunque voglia fare Pop si deve confrontare per forza.


Tracklist :

  1. I Saw Her Standing There
  2. Misery
  3. Anna (Go To Him)
  4. Chains
  5. Boys
  6. Ask Me Why
  7. Please Please Me
  8. Love Me Do
  9. P.S. I Love You
  10. Baby It's You
  11. Do You Want To Know A Secret
  12. A Taste Of Honey
  13. There's A Place
  14. Twist And Shout

domenica 3 novembre 2013

Recensione Metallica - Ride The Lightning

Se il primo disco è il nuovo che avanza, il secondo come detto da molti è il più difficile, perché devi dimostrare di saperci veramente fare. I Metallica dopo essersi fatti un nome con Kill 'Em All erano chiamati alla prova definitiva con questo secondo lavoro. E se è vero che il vero capolavoro sarà il terzo disco, Ride The Lightning è il punto d'incontro tra i due lavori. La rabbia giovanile di Kill 'Em All veniva limata e incanalata in pezzi memorabili.
Il primo ascolto di Ride The Lightning è come un pugno allo stomaco. I Four Horsemen per quarantacinque minuti non lasciano un attimo di respiro all'ascoltatore. Una serie di brani che entreranno di diritto nella storia del Metal, il tutto abbinato a una serie di citazioni molto elevate che in pochi si aspettavano da questi quattro giovani californiani. Si va da Lovecraft a Hemingway fino alle piaghe bibliche e alla pena di morte.
Otto brani che dal 1984 fanno parte delle scalette di tutti i concerti dei Metallica, con Creeping Death e From Whom The Bell Tools a farla da padroni, ma anche brani come Ride The Lightning e Fight Fire With Fire che sono di diritto tra i classici della band americana. Capitolo apparte meriterebbe Fade To Black che fino all'arrivo, quasi dieci anni dopo, di Nothing Else Matters era la cosa più vicina a una ballata che la band aveva composto.



Un disco di una potenza pazzesca, forse inferiore ai suoi successori sia tecnicamente che a livello compositivo, ma che è un passaggio dovuto tra gli esordi e i grandi successi. Un disco che mescola la voglia di fare musica ad alto livello dei dischi successivi con la potenza innata di quattro ventenni. E anche se Master Of Puppets è il capolavoro riconosciuto da tutti, per molti fans dei Four Horsemen è questo il disco guida.

Tracklist :
  1. Fight Fire With Fire
  2. Ride The Lightning
  3. For Whom The Bell Tolls
  4. Fade To Black
  5. Trapped Under Ice
  6. Escape
  7. Creeping Death
  8. The Call Of Ktulu

Recensione The Wall - Pink Floyd


Nel 1979 i Pink Floyd erano già una delle più grandi band della storia. In soli dodici anni avevano alle spalle capolavori del calibro di Meddle, Wish You Were Here, The Piper And The Gates Of Dawn ma soprattutto The Dark Side Of The Moon.
Roger Waters, la mente della band dopo l'allontanamento di Syd Barrett, decide di mettere mano a un progetto che aveva in mente da molti anni. La storia di una rockstar dalla sua nascita e in tutta la sua carriera, rincorso e oppresso da tutti i suoi demoni e le sue ossessioni, che altro che non sono quelle dello stesso Waters. Dalla morte del padre in guerra fino al successo musicale, passando per il rapporto conflittuale con la madre, Waters mette tutto in questo disco. E il risultato è un'opera rock di dimensioni mastodontiche, che otterrà un successo incredibile ma che porterà anche alla spaccatura definitiva tra le due anime della band.
Un disco che porterà ad un film e che ancora oggi Roger Waters continua a portare in tour come più ditrent'anni fa, continuando a suonare dietro a questo muro che la mente costruisce per nascondersi.
Un lavoro eccezionale nel complesso, ma anche prendendo singolarmente i brani si poteva tranquillamente tirare fuori un capolavoro con la metà dei pezzi. Another Brick In The Wall, Hey You, Young Lust, In The Flesh sarebbero stati già di loro dei pezzi di storia ma che racchiusi all'interno di una storia risultano ancora più efficaci. Anche se l'apice si tocca con Comfortably Numb che a tutt'oggi è probabilmente ancora il punto più alto della produzione dei Pink Floyd.



Un viaggio di sola andata nella mente umana, con tutte le sue paure e paranoie, è quello che Roger Waters è riuscito a creare. Un disco meraviglioso che però gli è costato la fine della sua storia nei Pink Floyd, ma anche l'elevazione a artista geniale e tra i più creativi che il ventesimo secolo ci ha regalato.