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lunedì 30 settembre 2013
domenica 29 settembre 2013
Recensione Peter Gabriel - And I'll Scratch Yours
A seguito del progetto
iniziato con Scratch My Back
del 2010 in cui Peter Gabriel andava a eseguire delle sue versioni di
alcuni famosissimi brani di altri interpreti, ecco ora arrivare And
I'll Scratch Yours in cui alcuni
grandissimi musicisti vanno a reinterpretare i più grandi successi
di Peter Gabriel da solista.
Ovviamente non si tratta di un disco di Peter Gabriel, ma di un disco di cover come ce ne sono tanti in giro. La cosa che varia rispetto a vari tributi che vengono fatti periodicamente a diversi artisti è che in questo caso l'artista tributato era parte integrante del progetto, collaborando o supervisionando i vari lavori.
Essendo delle cover vengono interpretate in maniera diversa da chi le va ad eseguire. C'è chi si mantiene fedele all'originale e chi le riproduce in maniera da farle quasi proprie. Ed è proprio in questo secondo caso in cui troviamo i migliori episodi del disco, quando l'artista chiamato a coverizzare un brano lo fa proprio. Come ad esempio Bon Iver che rilegge Come Talk To Me con il suo stile folk, così come fa molto effetto la versione molto più cupa e psichedelica di Shock The Monkey eseguita da Joseph Arthur.
Molto simili alla versione originale Games Without Frontiers degli Arcade Fire e Blood of Eden di Regina Spektor, ma non per questo meno suggestive nella nuova interpretazione.
Capitolo a parte lo meritano Mother of Violence e Solsbury Hill rifatte in ordine da Brian Eno e da Lou Reed. E se il buon vecchio Lou prende uno dei successi pop maggiori di Gabriel per farne una versione dilaniata e piena di chitarre distorte che ricorda molto da vicino i suoi Velvet Underground, Brian Eno si produce in una versione visionaria e spaziale di quella che in origine era una semplice ballata. La chiusura è affidata a Paul Simon con Biko che con la solita chitarra e la sua classe ormai universalmente riconosciuta riesce a far proprio il brano e raggiungere uno dei punti più alti del disco.
Peter Gabriel decide di rimettere in gioco dodici dei suoi più grandi successi ed il risultato è eccellente. La scelta degli artisti è stata perfetta ed anche i brani che vengono eseguiti in maniera più scolastica, si sente comunque il rispetto che gli artisti nutrono nei confronti di Gabriel eseguendoli in maniera perfetta.
Tracklist :
1. I Don’t Remember - David Byrne
2. Come Talk to Me - Bon Iver
3. Blood of Eden - Regina Spektor
4. Not One of Us - Stephen Merritt
5. Shock the Monkey - Joseph Arthur
6. Big Time - Randy Newman
7. Games Without Frontiers - Arcade Fire
8. Mercy Street - Elbow
9. Mother of Violence - Brian Eno
10. Don’t Give Up - Feist feat. Timber Timbre
11. Solsbury Hill - Lou Reed
12. Biko - Paul Simon
Ovviamente non si tratta di un disco di Peter Gabriel, ma di un disco di cover come ce ne sono tanti in giro. La cosa che varia rispetto a vari tributi che vengono fatti periodicamente a diversi artisti è che in questo caso l'artista tributato era parte integrante del progetto, collaborando o supervisionando i vari lavori.
Essendo delle cover vengono interpretate in maniera diversa da chi le va ad eseguire. C'è chi si mantiene fedele all'originale e chi le riproduce in maniera da farle quasi proprie. Ed è proprio in questo secondo caso in cui troviamo i migliori episodi del disco, quando l'artista chiamato a coverizzare un brano lo fa proprio. Come ad esempio Bon Iver che rilegge Come Talk To Me con il suo stile folk, così come fa molto effetto la versione molto più cupa e psichedelica di Shock The Monkey eseguita da Joseph Arthur.
Molto simili alla versione originale Games Without Frontiers degli Arcade Fire e Blood of Eden di Regina Spektor, ma non per questo meno suggestive nella nuova interpretazione.
Capitolo a parte lo meritano Mother of Violence e Solsbury Hill rifatte in ordine da Brian Eno e da Lou Reed. E se il buon vecchio Lou prende uno dei successi pop maggiori di Gabriel per farne una versione dilaniata e piena di chitarre distorte che ricorda molto da vicino i suoi Velvet Underground, Brian Eno si produce in una versione visionaria e spaziale di quella che in origine era una semplice ballata. La chiusura è affidata a Paul Simon con Biko che con la solita chitarra e la sua classe ormai universalmente riconosciuta riesce a far proprio il brano e raggiungere uno dei punti più alti del disco.
Peter Gabriel decide di rimettere in gioco dodici dei suoi più grandi successi ed il risultato è eccellente. La scelta degli artisti è stata perfetta ed anche i brani che vengono eseguiti in maniera più scolastica, si sente comunque il rispetto che gli artisti nutrono nei confronti di Gabriel eseguendoli in maniera perfetta.
Tracklist :
1. I Don’t Remember - David Byrne
2. Come Talk to Me - Bon Iver
3. Blood of Eden - Regina Spektor
4. Not One of Us - Stephen Merritt
5. Shock the Monkey - Joseph Arthur
6. Big Time - Randy Newman
7. Games Without Frontiers - Arcade Fire
8. Mercy Street - Elbow
9. Mother of Violence - Brian Eno
10. Don’t Give Up - Feist feat. Timber Timbre
11. Solsbury Hill - Lou Reed
12. Biko - Paul Simon
venerdì 27 settembre 2013
Recensione Kings Of Leon - Mechanical Bull
Sesto album in dieci anni per
la band a conduzione familiare dei tre fratelli Followill, Caleb,
Ivan Nathan e Michael Jared accompagnati dal cugino Matthew. Lavoro
che è il seguito di Come Around Sundown del
2010 forte dei numerosi dischi d'oro e di platino conseguiti.
Quando
stai per pubblicare un album a seguito di due immani successi come
Come Around Sundown e Only By The Night sei sicuramente
sottoposto a pressioni che in passato non avevi. E se aggiungiamo gli
accadimenti degli ultimi anni, tra problemi di salute, dipendenze,
concerti annullati e mai recuperati e addirittura voci di
scioglimento del gruppo, questo risulterà essere uno dei dischi più
attesi di questo 2013.
E i
quattro ragazzi americani sembrano rispondere Presenti alla chiamata
dei fans. E lo si era capito già dal primo singolo estratto da
questo nuovo lavoro, quella Supersoaker che aveva fatto andare
la mente ai precedenti lavori della band.
Se
è vero che guardare al passato serve a comprendere meglio il
presente, i Kings of Leon devono aver avuto questa massima stampata
in mente durante tutte le fasi di registrazione del disco. Difatti
questo nuovo lavoro in studio lascia veramente poco alle novità
sonore, andando invece a calcare il solco tracciato dai precedenti
lavori. Fin dal primo accordo è facilmente riconoscibile il suond
della band, ma con un ritrovato spirito compositivo che nell'ultimo
lavoro era venuto meno.
La
differenza sostanziale di questo lavoro rispetto agli ultimi è la
quasi totale assenza di un brano che spicca sul resto, un Hit da
proporre al grande pubblico, ma è di un livello abbastanza uniforme
tendente all'alto. L'unica canzone che spicca rispetto al resto è
Family Tree in cui si sente la voglia di provare
qualcos'altro, con un ritornello ammiccante già a prova di
esibizioni live.
Un
lavoro decisamente buono per la famiglia Followill, che mantiene alto
il loro standard dopo gli ultimi due lavori. Ovviamente si possono
muovere delle critiche per la poca originalità e la mancanza di
nuove idee, ma quando sai fare un tipo di musica così bene, senza
stancare chi ti ascolta, è anche difficile capire perché dovrebbero
cambiare.
Tracklist
:
Supersoaker
Rock
City
Don’t
Matter
Beautiful
War
Temple
Wait
for Me
Family
Tree
Comeback
Story
Tonight
Coming
Back Again
On
the Chin
giovedì 26 settembre 2013
Recensione Sting - The Last Ship
Pensando a Sting una delle prime cose a venire in mente è la
sperimentazione. Si perché per buona parte della sua carriera è
andato sempre dall'altra parte rispetto a quello che ci si aspettava.
E ora dopo dieci anni dall'ultimo disco in studio datato 2003 (
Sacred Love ) si va di nuovo in un'altra direzione rispetto al
previsto.
Annunciato come il nuovo album di inediti, dopo dieci anni abbastanza frenetici discograficamente, tra orchestre sinfoniche per la riproposizione di grandi classici e riscoperte della musica popolare e medievale inglese, anche The Last Ship lascerà l'amaro in bocca a chi aspettava un disco rock come quelli che lo avevano portato al successo con i Police. Quello che ci si para davanti è un disco folk, solo pochi giorni prima della pubblicazione si è saputo essere anche parte di un progetto ben più ampio che prevede queste canzoni come musical che andrà in scena nel 2014. Come sempre il nuovo disco di Gordon Sumner farà discutere sia pubblico che critica, tra innamorati e chi lo disprezzerà.
Il nuovo lavoro di Sting è quella che una volta veniva definita un'Opera Rock. Un disco che segue una storia, un suo senso, che va ascoltato dall'inizio alla fine, e da cui non si possono estrarre dei singoli, che tolti dal contesto renderebbero veramente poco. E come tutte le opere rock va ascoltata più volte per cogliere appieno il vero senso del tutto.
La storia che Sting porterà in scena con questo album è ambientata negli anni '80 nella natia Newcastle, con i suoi cantieri navali protagonisti. Quei cantieri navali che vedevano impegnato il padre di Sting in anni di lavoro, e che il padre stesso indicava al figlio per il futuro, altro che la musica!
Sting usa i toni popolari per rappresentare questa storia, musica che si poteva sentire nei pub britannici in quei periodi, riproposte dal nativo di Newcastle con la solita maestria e raffinatezza che da sempre lo contraddistinguono. Come detto in operazioni del genere è difficile estrapolare qualcosa dal contesto, ma abbiamo momenti in cui il vecchio Sting vuole mischiarsi con il moderno, e forse concepisce le parti migliori ( August Wind e The Ballad Of The Great Western ).
Un disco sicuramente non semplice, e che necessita di diversi ascolti per essere compreso e apprezzato a fondo, come detto senza saltare da una parte all'altra, ma seguendo il senso logico che Sting gli ha dato. Probabilmente il problema contro cui si dovrà confrontare il disco sarà culturale perché in questo periodo di musica usa e getta, il pubblico è ancora disponibile ad ascoltare un disco per intero, senza avere a disposizione quei due, tre singoli da poter ascoltare all'infinito?
Tracklist :
Annunciato come il nuovo album di inediti, dopo dieci anni abbastanza frenetici discograficamente, tra orchestre sinfoniche per la riproposizione di grandi classici e riscoperte della musica popolare e medievale inglese, anche The Last Ship lascerà l'amaro in bocca a chi aspettava un disco rock come quelli che lo avevano portato al successo con i Police. Quello che ci si para davanti è un disco folk, solo pochi giorni prima della pubblicazione si è saputo essere anche parte di un progetto ben più ampio che prevede queste canzoni come musical che andrà in scena nel 2014. Come sempre il nuovo disco di Gordon Sumner farà discutere sia pubblico che critica, tra innamorati e chi lo disprezzerà.
Il nuovo lavoro di Sting è quella che una volta veniva definita un'Opera Rock. Un disco che segue una storia, un suo senso, che va ascoltato dall'inizio alla fine, e da cui non si possono estrarre dei singoli, che tolti dal contesto renderebbero veramente poco. E come tutte le opere rock va ascoltata più volte per cogliere appieno il vero senso del tutto.
La storia che Sting porterà in scena con questo album è ambientata negli anni '80 nella natia Newcastle, con i suoi cantieri navali protagonisti. Quei cantieri navali che vedevano impegnato il padre di Sting in anni di lavoro, e che il padre stesso indicava al figlio per il futuro, altro che la musica!
Sting usa i toni popolari per rappresentare questa storia, musica che si poteva sentire nei pub britannici in quei periodi, riproposte dal nativo di Newcastle con la solita maestria e raffinatezza che da sempre lo contraddistinguono. Come detto in operazioni del genere è difficile estrapolare qualcosa dal contesto, ma abbiamo momenti in cui il vecchio Sting vuole mischiarsi con il moderno, e forse concepisce le parti migliori ( August Wind e The Ballad Of The Great Western ).
Un disco sicuramente non semplice, e che necessita di diversi ascolti per essere compreso e apprezzato a fondo, come detto senza saltare da una parte all'altra, ma seguendo il senso logico che Sting gli ha dato. Probabilmente il problema contro cui si dovrà confrontare il disco sarà culturale perché in questo periodo di musica usa e getta, il pubblico è ancora disponibile ad ascoltare un disco per intero, senza avere a disposizione quei due, tre singoli da poter ascoltare all'infinito?
- The Last Ship
- Dead Man's Boots
- And Yet
- August Winds
- Language Of Birds
- Practical Arrangement
- The Night The Pugilist Learned How To Dance
- Ballad Of The Great Eastern
- What Have We Got
- I Love Her But She Loves Someone Else
- So To Speak
- The Last Ship
domenica 22 settembre 2013
Recensione Dream Theater - Dream Theater Album
Ventiquattro sono gli anni ormai passati dal primo disco della
band americana, con undici album in studio all'attivo, e alle porte
l'uscita del dodicesimo. Che oltretutto è il secondo dopo la
dipartita, artisticamente parlando, dello storico batterista Mike
Portnoy, che arriva a due anni di distanza dal precedente A
Dramatic Turn Of Events.
E se nel precedente disco già dal titolo e la copertina si voleva indicare il momento “in bilico” che la band stava vivendo, già dalla scelta del titolo del nuovo lavoro indica un diverso stato d'animo da parte della band di Petrucci, Myung e soci. Dream Theater sta a significare un ritrovato spirito di unione e di intenti da parte dei cinque musicisti, che decidono di mettere il bene del gruppo rispetto ai propositi personali.
Se la musica fosse solo una questione tecnica, i Dream Theater avrebbero pochi rivali al Mondo, sia ora che nel passato. Ma la musica è fatta anche di altro, e le accuse che venivano mosse più spesso alla band di Boston, erano proprio riguardanti altri aspetti, il che li ha resi tra le band più discusse degli ultimi venti anni. Difatti dopo alcuni capolavori iniziali, Images & Words su tutti, i lavori successivi hanno sempre spaccato il pubblico, tra fans adoranti e haters feroci. Questo nuovo lavoro parte con l'obiettivo di conciliare entrambi i lati della platea.
La critica sempre maggiormente mossa è riguardante l'aspetto tecnico dei loro dischi. Troppo concentrati sulla tecnica singola di ognuno di loro, per lasciare da parte la melodia e l'intensità emotiva che la musica dovrebbe suscitare. La verità è che ci troviamo davanti a quattro virtuosi dei rispettivi strumenti, che non sempre hanno riuscito ad amalgamare alla perfezione la grandezza di ogni singolo interprete.
Ma già dai singoli di questo disco, The Enemy Inside e Along For The Ride, si notava una minore concentrazione sul virtuosismo, in cerca di una maggiore coesione tra tutti gli elementi. E probabilmente si è cercato quello in questo album. Pezzi più brevi, meno iniziative personali, ma una maggiore coesione nel complesso. E il risultato migliore è quella Surrender To Reason che unisce alla perfezione il cantato quasi sofferto di LaBrie con la forza dei riff di Petrucci, come non accadeva da un po'.
Ma ovviamente se nasci tondo non muori quadrato, quindi ogni tanto fa capolino quel passato non sempre apprezzato da tutti, in cui i nostri si lasciano andare a qualche spunto personale un po' fuori contesto. Così come non mancano alcuni capisaldi della band che si ritrovano in tutti i loro dischi. Ci sono due brani strumentali, False Awakening Suite e Enigma Machine, così come non manca la lunghissima suite, Illumination Theory di 22 minuti, che da sempre è presente in ogni lavoro della band.
Quindi un disco forse più semplice rispetto al passato, ma che dopo parecchi ascolti farà emergere una complessità di fondo che forse viene inizialmente un po' nascosta da questa nuova via presa dai Dream Theater.
Di sicuro il miglior lavoro della band di Petrucci dai tempi di Train Of Thought ( 2003 ), quindi da dieci anni a questa parte, che riesce nel difficile compito di unire una tecnica spaventosa con una melodia che può giungere tranquillamente a tutti, anche a chi li ha aspramente criticati nel corso degli ultimi anni di carriera. Un lavoro molto più omogeneo rispetto agli ultimi dischi che permetterà a tanti fans del Metal di apprezzare questo lavoro.
Tracklist :
1. FALSE AWAKENING SUITE
2. THE ENEMY INSIDE
3. THE LOOKING GLASS
4. ENIGMA MACHINE
5. THE BIGGER PICTURE
6. BEHIND THE VEIL
7. SURRENDER TO REASON
8. ALONG FOR THE RIDE
9. ILLUMINATION THEORY
E se nel precedente disco già dal titolo e la copertina si voleva indicare il momento “in bilico” che la band stava vivendo, già dalla scelta del titolo del nuovo lavoro indica un diverso stato d'animo da parte della band di Petrucci, Myung e soci. Dream Theater sta a significare un ritrovato spirito di unione e di intenti da parte dei cinque musicisti, che decidono di mettere il bene del gruppo rispetto ai propositi personali.
Se la musica fosse solo una questione tecnica, i Dream Theater avrebbero pochi rivali al Mondo, sia ora che nel passato. Ma la musica è fatta anche di altro, e le accuse che venivano mosse più spesso alla band di Boston, erano proprio riguardanti altri aspetti, il che li ha resi tra le band più discusse degli ultimi venti anni. Difatti dopo alcuni capolavori iniziali, Images & Words su tutti, i lavori successivi hanno sempre spaccato il pubblico, tra fans adoranti e haters feroci. Questo nuovo lavoro parte con l'obiettivo di conciliare entrambi i lati della platea.
La critica sempre maggiormente mossa è riguardante l'aspetto tecnico dei loro dischi. Troppo concentrati sulla tecnica singola di ognuno di loro, per lasciare da parte la melodia e l'intensità emotiva che la musica dovrebbe suscitare. La verità è che ci troviamo davanti a quattro virtuosi dei rispettivi strumenti, che non sempre hanno riuscito ad amalgamare alla perfezione la grandezza di ogni singolo interprete.
Ma già dai singoli di questo disco, The Enemy Inside e Along For The Ride, si notava una minore concentrazione sul virtuosismo, in cerca di una maggiore coesione tra tutti gli elementi. E probabilmente si è cercato quello in questo album. Pezzi più brevi, meno iniziative personali, ma una maggiore coesione nel complesso. E il risultato migliore è quella Surrender To Reason che unisce alla perfezione il cantato quasi sofferto di LaBrie con la forza dei riff di Petrucci, come non accadeva da un po'.
Ma ovviamente se nasci tondo non muori quadrato, quindi ogni tanto fa capolino quel passato non sempre apprezzato da tutti, in cui i nostri si lasciano andare a qualche spunto personale un po' fuori contesto. Così come non mancano alcuni capisaldi della band che si ritrovano in tutti i loro dischi. Ci sono due brani strumentali, False Awakening Suite e Enigma Machine, così come non manca la lunghissima suite, Illumination Theory di 22 minuti, che da sempre è presente in ogni lavoro della band.
Quindi un disco forse più semplice rispetto al passato, ma che dopo parecchi ascolti farà emergere una complessità di fondo che forse viene inizialmente un po' nascosta da questa nuova via presa dai Dream Theater.
Di sicuro il miglior lavoro della band di Petrucci dai tempi di Train Of Thought ( 2003 ), quindi da dieci anni a questa parte, che riesce nel difficile compito di unire una tecnica spaventosa con una melodia che può giungere tranquillamente a tutti, anche a chi li ha aspramente criticati nel corso degli ultimi anni di carriera. Un lavoro molto più omogeneo rispetto agli ultimi dischi che permetterà a tanti fans del Metal di apprezzare questo lavoro.
Tracklist :
1. FALSE AWAKENING SUITE
2. THE ENEMY INSIDE
3. THE LOOKING GLASS
4. ENIGMA MACHINE
5. THE BIGGER PICTURE
6. BEHIND THE VEIL
7. SURRENDER TO REASON
8. ALONG FOR THE RIDE
9. ILLUMINATION THEORY
giovedì 19 settembre 2013
Recensione Placebo - Loud Like Love
Quattro anni fa l'uscita di Battle For The Sun fu accolto da
un buon successo di pubblico, ecco ora arrivare il settimo album di
Brian Molko e compagni, in una carriera che si avvicina a grandi
passi al ventennale.
I Placebo è uno di quei gruppi che hanno sempre spaccato, sia la
critica che il pubblico. È una di quelle band che o vengono amate o
vengono odiate. Di solito sono amati dal pubblico ed odiati dalla
critica. La critica che gli viene mossa principalmente è la scarsità
di varietà nella loro discografia, considerata sempre molto simile
fin dagli inizi della loro carriera. La classica forma dei brani dei
Placebo, strofa-ritornello-strofa sembra aver stancato molto più i
critici che i fan, che non fanno mai mancare il loro affetto alla
band. E la voce inconfondibile di Brian Molko permette sempre il
riconoscimento di un pezzo della band fin dai primi versi.
Già da i due singoli pubblicati negli ultimi mesi si era potuto
intuire il percorso del disco. Se Too Many Friends sembrava
fatto apposta per i passaggi radio, con il suo motivetto che entra in
testa senza uscirne, la titletrack Loud Like Love era sembrata
fin da subito un pezzo dei Placebo. Così come possono essere
definiti una buona parte dei pezzi del disco, che non si discostano
quasi per nulla dal passato dei tre inglesi. Le cose migliori del
disco si possono però apprezzare quando il gruppo prende altre
strade. A Million Little Pieces con la sua enfasi, ma
soprattutto i due brani finali del disco, Begin The End e
Bosco. Su tutte spicca il brano che chiude l'album,
un'intensissima ballata corredata di piano ed archi che le dà un
tono quasi epico.
Un disco che non farà cambiare a nessuno l'opinione che già avevano
sulla band, visto che non fa altro che sottolineare i tratti
caratteristici del gruppo, mantenendo pregi e difetti, ma con un
finale che lascia aperti futuri scenari della band, visto la capacità
di muoversi anche in altri contesti.
Tracklist
:
1-
Loud Like Love
2- Scene of the Crime
3- Too Many Friends
4- Hold on to Me
5- Rob the Bank
6- A Million Little Pieces
7- Exit Wounds
8- Purify
9- Begin the End
10- Bosco
2- Scene of the Crime
3- Too Many Friends
4- Hold on to Me
5- Rob the Bank
6- A Million Little Pieces
7- Exit Wounds
8- Purify
9- Begin the End
10- Bosco
martedì 17 settembre 2013
Recensione Virginiana Miller - Venga Il Regno
A poco più di
tre anni di distanza dal precedente Il Primo Lunedì del Mondo,
arriva il sesto disco della band
livornese Virginiana Miller. Venga il Regno arriva
nei negozi trascinata dal successo del brano Tutti I Santi
Giorni, brano presente
nell'omonimo film di Virzì che ha fruttato alla band anche un David
di Donatello come miglior canzone originale in un film.
Fin
dai loro esordi, ormai più di quindici anni fa, i Virginiana Miller
si sono sempre contraddistinti come una delle band più colte ed
intellettuali del panorama indipendente italiano. Il che li ha
lasciati sempre un po' in una nicchia, non garantendogli il successo
che forse meritava già da qualche anno. Il pubblico più vasto era
forse spaventato dalle citazioni anche molto elevate che la band
toscana proponeva.
La
band ha forse capito la questione, oppure ha solo trovato una
serenità che li porta a scendere su un piano più basso per
avvicinarsi alla gente. Questo disco parla di amore e di bellezza, e
della strada che si compie per raggiungerli.
Undici
traccie per segnare un inversione di rotta rispetto al passato,
volendo anche avvicinandosi al pop più classico, ma non è un male
perché il risultato è un disco meno verboso rispetto ai precedenti,
e di conseguenza più leggero, non nel senso deteriore del termine ma
più fruibile dai più. Già le due canzoni che lo avevano
preannunciato, Tutti I Santi Giorni e
Una Bella Giornata,
mostravano un lato più solare rispetto al passato della band, e
seguivano quello che sarà il tema portante di tutto il disco, come
detto l'amore. Tema che si ripresenta già in apertura di disco con
Due che punta l'occhio
più sulla difficoltà nei rapporti. Ma rimane un concetto che
attraversa tutto il disco, passando per Pupilla e
Dal Blu.
Capitolo a parte lo meritano tre brani all'interno del disco. Lettera
Di San Paolo Agli Operai che sembra un'omaggio a De André già
dal titolo, con il suo affresco su un periodo come gli anni settanta.
Altro titolo che sembra arrivare direttamente da quegli anni è la
bellissima Anni Di Piombo anche questa parla dell'amore, ma
con una visione riportata all'epoca di quegli anni, con un
citazionismo degno dei passati di Lenzi e compagnia. La chiusura è
affidata alla quasi Sorrentiniana L'eternità di Roma, che
prova a descrivere la bellezza e la decadenza della nostra capitale.
Come detto un netto cambio di direzione rispetto ai primi cinque
lavori della band livornese, forse anche un taglio netto, che però
aprirà sicuramente ad un pubblico maggiore, visto che comunque è si
più leggero e avvicinabile rispetto al passato, ma mantiene un
livello qualitativo talmente elevato che sarà amato sia dai nuovi
che dai vecchi fan.
Tracklist
:
- Due
- Anni di Piombo
- Una Bella Giornata
- Pupilla
- Dal Blu
- Lettera di San Paolo Agli Operai
- Tutti i Santi Giorni
- Nel Recinto Dei Cani
- Effetti Speciali
- Chic
- L'Eternità di Roma
lunedì 16 settembre 2013
Recensione Elton John - The Diving Board
Quarantaquattro
anni di carriera, tra le migliori sempre. Una carriera iniziata nel
1969 e che in questo 2013 vede la pubblicazione del trentesimo disco
in studio. Sessantasei anni e non sentirli, questo di potrebbe dire
di Sir Elton John, ormai da quasi mezzo secolo sulla cresta
dell'onda.
Quando
hai venduto oltre quattrocento milioni di dischi, sei da tutti
riconosciuto come un'icona pop dei nostri tempi, hai ispirato
centinaia di artisti dopo di te, se continui a fare musica lo fai
solo per amore della stessa. Eppure sono lontanissimi i tempi di
Goodbye Yellow Brick Road
e
di Captain
Fantastic,
quando l'ispirazione e la voglia di stupire erano quelli di un
ragazzo. Ora si lascia spazio a una sobrietà che si riflette anche
nella sua musica. Affiancato quindi dal fidato Bernie Taupin (
artisticamente insieme dal 1967 ) si torna in studio per l'ennesimo
lavoro discografico, come detto il trentesimo in studio. E stando
alle loro interviste per presentarlo ci sono voluti appena due giorni
a scriverlo.
Il
risultato di questa ennesima è un ottimo lavoro, in cui a farla da
padrone è come sempre il pianoforte magistralmente suonato da Sir
Elton. Un disco compatto con quasi nulla che spicca dal resto, ma che
tiene costante un livello molto elevato. Con la malinconica Oceans
Away sembra
che il disco voglia andare da una parte, ma già dalle successive
Oscar Wilde Gets
Out e
A Town Called
Jubilee
si cambia registro, con un sound molto più ritmato e cadenzato, che
è sempre stato nelle corde del baronetto. Il disco continua con il
ritmo che preso con The
Ballad Of Blind Tom,
per passare a un paio di basi blueseggianti Can't
Stay Alone Tonight,
Take This Dirty
Water e
Mexican Vacation.
Il
disco si chiude con la titletrack The
Diving Board
forse il pezzo più debole dell'intero disco. Ma è alla metà esatta
del disco che troviamo quello che forse è il punto più elevato.
Voyeur
ricorda molto da vicino i pezzi più famosi del repertorio sconfinato
del baronetto, andando a miscelare alla perfezione la voce di Elton
con il suo piano che si fondono in un pezzo meraviglioso.
In
totale dodici traccie ( tre sono intermezzi di pochi secondi ) che ci
ricordano ancora una volta, e per chi lo avesse dimenticato, che
questo quasi settantenne inglese, dalla vita incosciente e discussa,
ancora è in grado di dare lezioni di come si fa musica a lunghissime
schiere di giovani artisti, che verranno ancora una volta ispirati e
influenzati da questo meraviglioso artista.
Tracklist
:
- Oceans Away
- Oscar Wilde Gets Out
- A Town Called Jubilee
- The Ballad Of Blind Tom
- Dream No. 1
- My Quicksand
- Can't Stay Alone Tonight
- Voyeur
- Home Again
- Take This Dirty Water
- Dream No. 2
- The New Fever Waltz
- Mexican Vacation ( Kids in The Candlelight )
- Dream No. 3
- The Diving Board
domenica 15 settembre 2013
All Apologies - A Story About Nirvana
13 Settembre 1993.
Usciva nei negozi di dischi In Utero il terzo disco dei Nirvana. Nessuno immaginava sarebbe stato l'ultimo in studio per i tre ragazzi di Seattle che avevano rivoltato il mondo della musica. Si arrivava a questo disco con due anni vissuti pericolosamente.
Il 24 Settembre del 1991 era esplosa la bomba. Nevermind era arrivato nei negozi ed aveva sconvolto il mondo discografico. Tre ragazzi urlavano la rabbia di un'intera generazione, quella che poi sarebbe stata ribattezzata Generazione X. Smells Like Teen Spirit aveva portato questi tre giovani reietti sulle copertine di tutte le riviste e in testa a tutte le classifiche mondiali. Ad oggi i dati parlano di venti milioni di copie vendute, ma il conto non si ferma. E hanno avuto il merito di dare voce alla rabbia e alla frustrazione di una generazione di disadattati come loro.
Pezzi come la già citata Smells Like Teen Spirit ma anche Come As You Are,In Bloom,Polly, Breed, Lithium, Drain You, Something In The Way sono entrati per sempre nella storia della musica, e hanno reso i Nirvana una band di dimensioni planetarie. Pezzi che li hanno portati a suonare nei più importanti festival del mondo, davanti a folle oceaniche, e che hanno reso Kurt Cobain un personaggio fondamentale in quegli anni.
Il loro nome già girava nell'ambiente da diversi anni, l'album di debutto Bleach aveva messo i Nirvana sulla bocca degli addetti ai lavori per il loro stile. E sulla bocca del pubblico ci erano finiti per quell'abitudine di distruggere lo stage al termine dei loro concerti.
Loro erano una delle tante band che arrivava da Seattle in quel periodo. E no, non hanno inventato loro il Grunge. Il Grunge già esisteva da anni grazie ad altre band, loro hanno avuto il merito di portarlo in dono al mondo, con la complicità dei Pearl Jam. Grazie al loro traino l'attenzione del mondo si spostò sul nord-ovest degli Usa e ci portò a conoscere gruppi straordinari come Soundgarden, Alice In Chains, Mother Love Bone e tanti altri.
Dopo Nevermind niente sarebbe stato più lo stesso. La notorietà cadde sulle spalle dei Nirvana come un fulmine a ciel sereno, probabilmente non erano neanche preparati a tutto ciò. A risentirne di più fu sicuramente Cobain. Fu proclamato a furor di popolo voce di un movimento, di una generazione, ruolo che lui non avrebbe mai voluto ricoprire. Un successo inaspettato che colse di sorpresa tutti e che forse non erano neanche in grado di gestire. Molteplici furono gli sbagli che vennero commessi tra il '91 e il '94. Droga, figli, mogli, risse, polemiche ( vere o create ad arte ) e chi più ne ha più ne metta. Tutto faceva brodo, basta che si parlava di loro.
I problemi di droga all'interno del gruppo erano di dominio pubblico. Dave Ghorl e Chris Novoselic non nascosero mai di essere consumatori abituali di erba. Ma anche qui era Cobain a farla da padrone. La sua dipendenza dall'eroina non era nascosta a nessuno, lui si giustificava dicendo che era l'unica sostanza che placava i suoi dolori cronici allo stomaco. In realtà era solo un uomo fragile, segnato dalla vita che aveva trovato in quella polvere marrone uno dei pochi sollievi. A far precipitare la situazione fu la conoscenza, la frequentazione e poi il matrimonio con Courtney Love. La cantante delle Hole fu uno dei personaggi più controversi degli anni '90. Alcuni la definiscono la Yoko Ono della fine del secolo. Anche lei consumatrice abituale di eroina, in coppia con Kurt formavano una miscela devastante, che li avrebbe condotti all'autodistruzione. Ma un merito la relazione con Courtney lo ebbe anche. Da questa unione nacque Francis Bean Cobain, l'unica figlia della coppia. Un barlume di luce in mezzo a al buio che Kurt vedeva intorno a lui. Il successo sempre più schiacciante, la dipendenza sempre più forte erano dimenticati grazie alla figlia. Per un lungo periodo riuscì anche a stare lontano dalla droga. Ma poi ci ricascò. Quella figlia che ancor prima di nascere aveva già creato diversi problemi alla coppia. A causa di un'intervista a Vanity Fair in cui Courtney dichiarò di continuare a usare eroina anche durante la gravidanza portò a scatenarsi contro la coppia tutta l'opinione pubblica, fino al punto che la neonata fu tolta ai due e solo dopo mesi di battaglie legali ebbero di nuovo l'affidamento.
Ma le polemiche non erano solo nella vita privata, ma anche a livello artistico. Ce ne fu una creata quasi ad arte che li voleva contrapposti ai Pearl Jam. Polemica che il tempo dimostrò non essere altro che sui giornali che non nella realtà. I due gruppi si rispettavano, così come lo facevano i rispettivi frontman. Una molto più reale fu quella che li vide contro i Guns 'n Roses. Fin dall'uscita di Nevermind, Axl Rose si dichiarò un grandissimo fan dei Nirvana, tanto da invitarli a suonare da spalla al tour mondiale che attendeva la band di Axl e Slash. In tutta risposta i Nirvana durante un'intervista dichiararono che non avrebbero mai suonato con una band “Misogina e che odia i Gay”. Da quel giorno fu battaglia tra le due band, prima solo a parole, poi si arrivò ai fatti.
9 Settembre 1992, MTV Music Award a Los Angeles. Prima dell'evento si incontrano le due band, con le rispettive crew. Dopo uno scambio di battute un po' acceso si passa direttamente alle mani. Le cronache narrano di un Cobain con prole al seguito che si da alla fuga, ma anche di Grohl e Novoselic decisi a risolvere le cose alla vecchia maniera.
Quella serata sarà ricordata da tutti non solo per la rissa prima, ma anche per quello che successe durante lo show. I Nirvana vennero invitati a suonare un pezzo durante lo spettacolo. L'organizzazione propose di suonare Lithium il singolo che girava in quel periodo per le radio e nella tv musicale che organizzava il tutto. I Nirvana in tutta risposta volevano presentare un pezzo nuovo, Rape Me. Agli organizzatori bastò il titolo per negare la possibilità alla band. Senza averla mai sentita e non conoscendo il testo decisero che suonare in diretta mondiale una canzone intitolata “Stuprami” non era adatto al tono della serata. La band venne premiata due volte nel corso dello show, fino a che non arrivò il momento della loro esibizione. Provocatori come sempre i Nirvana attaccano con Rape Me cantando i primi due versi. Quando dalla regia erano pronti a mandare la pubblicità ecco che la band dirotta su Lithium. Per chiudere in bellezza, durante la distruzione degli strumenti al termine del brano, Chris Novoselic si avvicinò al microfono chiedendo dove si trovasse Axl Rose, il quale andò su tutte le furie.
Poi arrivò il 1993. La band, ma soprattutto Cobain, ormai stanchi di tutto quello che gli è caduto addosso, decide che è ora di registrare il nuovo album, che Nevermind aveva bisogno di un seguito.
Cobain era molto deluso dal lavoro fatto con il precedente disco, a suo avviso con un suono troppo commerciale. Decise così di prendere le redini del successivo lavoro. Si andarono a chiudere in una sala di registrazione nei boschi del Minnesota, e ci rimasero finche il disco non fu ultimato. Voleva un suono più simile al loro debutto. Un suono ruvido e vero, non pulito come in Nevermind. Quello che ne venne fuori fu un disco straordinario, a detta di molti il migliore della band. Conteneva pezzi come Rape Me, Heart-Shaped Box, Pennyroyal Tea, All Apologies che avrebbero fatto la fortuna di qualsiasi band, ma forse non per i Nirvana, visto che venivano dal travolgente successo del disco precedente.
E quel successo li continuò a travolgere. Arrivò anche il 1994 e tutto finì.
“It's Better to Burn Out Than to Fade Away”
è meglio bruciare che spegnersi lentamente. Queste parole erano riportate sulla lettera di addio lasciata da Cobain, scritta prima di finirla con questo Mondo. Il 5 Aprile 1994 un colpo di fucile e una delle più influenti band della storia terminò la sua corsa. Ora Novoselic è sparito quasi completamente dalle scene, Dave Grohl si è reinventato ed è uno dei più importanti musicisti di questi anni 2000. Cobain è ormai riconosciuto come una delle icone della musica mondiale, al parti di personaggi come Jim Morrison o Jimi Hendrix.
Molti si domandano cosa sarebbe stato se la storia dei Nirvana fosse andata avanti. C'è chi è convinto che sarebbero finiti, chi dice che ci avrebbero regalato ancora importanti pagine di storia. Non rimane che riascoltare quello che ci hanno lasciato, con la consapevolezza che quell'onda che ci ha travolto in quei pochi anni, non tornerà mai più.
Recensione Arcane Roots - Blood & Chemistry
Arriva anche in Italia, a distanza
di cinque mesi rispetto al resto d'Europa, il primo disco degli
Arcane Roots, trio londinese che aveva già pubblicato un paio di
anni fa un EP accolto molto positivamente da pubblico e critica.
Primo lavoro lungo per i tre
inglesi, visti anche in Italia in accompagnamento al tour dei Muse lo
scorso Luglio. È un disco che fin dal primo ascolto trasuda energia,
e mette in mostra tutta la voglia che hanno questi tre ragazzi di
fare musica di un certo livello.
La cosa che colpisce subito è la complessità offerta in questo album. Riesce a unire elementi di diversi generi con una naturalezza che stupisce. Per essere praticamente un debutto è tutt'altro che da disprezzare. Al primo ascolto sono subito chiare le influenza che i tre londinesi hanno subito nella loro vita. Sembra di ascoltare un disco dei Mars Volta insieme ai Tool, con qualche ritornello cantato da Corey Taylor ( Slipknot ).
Detto a questo modo può sembrare che venga fuori un minestrone di suoni quasi sconnessi tra loro, invece la grande capacità del gruppo è proprio quello di fondere il tutto andando a creare un qualcosa di innovativo unendo la loro anima indie con aspetti molto più vicino al Prog moderno. La sublimazione di questo aspetto è la parte centrale del disco con Triptych e Slow a emergere in tutta la loro grandezza.
Ma anche tutto il resto del disco è di una compattezza sonora che stupisce se si pensa che la band è solo al primo vero album. Gli Arcane Roots dimostrano anche la capacità di saper maneggiare suoni più delicati, come il finale di Slow e Held Like Kites, il che lascia aperte porte per il futuro a strade diverse per il loro sound.
Finalmente anche in Italia avremo la possibilità di acquistare questo disco, anche se con notevole ritardo. Un disco che rientra di diritto tra i migliori di questo 2013 e che ci offre la possibilità di ascoltare una di quelle band che negli anni a venire farà sicuramente parlare di se.
Tracklist :
Energy Is Never Lost, Just Redirected
Resolve
Belief
Sacred Shapes
Hell And High Water
Triptych
Slow
Second Breath
Held Like Kites
You Keep Me Here
La cosa che colpisce subito è la complessità offerta in questo album. Riesce a unire elementi di diversi generi con una naturalezza che stupisce. Per essere praticamente un debutto è tutt'altro che da disprezzare. Al primo ascolto sono subito chiare le influenza che i tre londinesi hanno subito nella loro vita. Sembra di ascoltare un disco dei Mars Volta insieme ai Tool, con qualche ritornello cantato da Corey Taylor ( Slipknot ).
Detto a questo modo può sembrare che venga fuori un minestrone di suoni quasi sconnessi tra loro, invece la grande capacità del gruppo è proprio quello di fondere il tutto andando a creare un qualcosa di innovativo unendo la loro anima indie con aspetti molto più vicino al Prog moderno. La sublimazione di questo aspetto è la parte centrale del disco con Triptych e Slow a emergere in tutta la loro grandezza.
Ma anche tutto il resto del disco è di una compattezza sonora che stupisce se si pensa che la band è solo al primo vero album. Gli Arcane Roots dimostrano anche la capacità di saper maneggiare suoni più delicati, come il finale di Slow e Held Like Kites, il che lascia aperte porte per il futuro a strade diverse per il loro sound.
Finalmente anche in Italia avremo la possibilità di acquistare questo disco, anche se con notevole ritardo. Un disco che rientra di diritto tra i migliori di questo 2013 e che ci offre la possibilità di ascoltare una di quelle band che negli anni a venire farà sicuramente parlare di se.
Tracklist :
Energy Is Never Lost, Just Redirected
Resolve
Belief
Sacred Shapes
Hell And High Water
Triptych
Slow
Second Breath
Held Like Kites
You Keep Me Here
martedì 10 settembre 2013
Recensione Samuele Bersani - Nuvola Numero Nove
Ottavo
album in studio per il cantante romagnolo, il primo dopo quattro anni
da Manifesto Abusivo, ma soprattutto il primo dopo la
scomparsa del suo maestro e mentore Lucio Dalla. E per la prima volta
Bersani ha fatto tutto da se, le canzoni sono scritte, arrangiate e
prodotte da lui stesso, negli stessi studi che erano di Dalla.
Quando
ormai la tua carriera è ultra ventennale e ricca di premi e
riconoscimenti, da te ci si aspetterebbe un lavoro classico,
incentrato su una continuità rispetto alla tua carriera. Invece
Bersani cambia strada, se fino ad ora le sue canzoni erano un
guardarsi dentro, in questo disco decide di guardare il mondo che lo
circonda. E il guardarsi intorno non è solo metaforico, ma anche
tecnico. Tre canzoni del disco, Spia Polacca, Desirèe e Il Re
Muore, sono scritte e suonate in collaborazione con giovani
artisti scoperti da lui quasi per caso sul web.
Ed
è un disco che porta anche una nuova ricercatezza a livello
musicale. Mano mano che lo si ascolta si riescono a scovare suoni
nuovi, che in passato non erano molto familiari al cantante di
Cattolica.
Come
dichiarato dallo stesso Bersani in fase di presentazione del disco è
un album che parla di coppie e di rapporti, non per forza amorosi,
con sempre un tramite a unire questi elementi. Già dal primo singolo
En e Xanax si nota questa rappresentazione di coppia, con la
voglia di scacciare i propri demoni a fare da tramite tra i due
protagonisti. Ma la stessa tematica la possiamo trovare anche in
Desirèe, Complimenti, Reazione Umana e Spia Polacca tutte
legate da un filo rosso che unisce il tema portante del disco. Ma non
mancano anche delle istantanee sul mondo moderno, su tutte spicca
D.A.M.S. Una piccola perla all'interno dell'album, che da uno
spaccato dello studente universitario moderno con tutte le sue
contraddizioni.
Forse
non si tratterà del miglior album della carriera di Bersani, ma
sicuramente un disco che lo porta, e porta anche noi, a vedere da un
punto di vista diverso sia lui che la sua musica. Un lavoro che fa
ben sperare per il proseguo della sua carriera, visto che dopo un
certo numero di anni inizia una decadenza che per il momento il buon
Samuele sembra tenere distante.
Tracklist :
- Complimenti! - 3:47
- En E Xanax - 4:30
- Chiamami Napoleone - 3:09
- Desirée - 3:06
- Ultima chance - 3:37
- Settimo cielo - 3:23
- D.A.M.S. - 3:38
- Reazione umana- 4:40
- Spia polacca - 3:36
lunedì 9 settembre 2013
Recensione Arctic Monkeys - AM
Arriva uno dei
dischi più attesi di tutto il 2013. Gli Artctic Monkeys tornano con
il loro quinto album in studio, dopo due anni da Suck It and See.
Anticipato da due singoli R U
Mine? E
Do I Wanna Know? E
da una serie di rivelazioni strada facendo tra live e b-sides,
finalmente possiamo sentire per intero questo nuovo AM.
La
band di Alex Turner in questo inizio di secolo si era distinta con la
loro voglia quasi adolescenziale di divertirsi e divertire con la
loro musica. Erano famosi per le loro chitarre aggressive e i loro
riff cantilenati che entravano in testa per uscirne difficilmente. Ma
si arriva a un punto in cui la maturità prende il sopravvento, e ti
porta quasi a guardarti dentro.
Questo
nuovo album può considerarsi come una transizione tra una giovinezza
e una maturità artistica, in cui la band ancora non ha ben chiaro
quale sarà il corso che prenderà. Avevano già in passato a tentare
una svolta Heavy, con Humbug,
ma completata, ora invece sembra regnare una sorta di confusione che
li porta a mescolare diversi stili e generi, in attesa di capire cosa
vogliano fare.
Ovviamente
non mancano anche richiami al loro passato R
U Mine? E arabella
su tutte, ma abbiamo
moltissimi ammiccamenti al Pop e all'Hip Hop, dovuti in parte anche
al trasferimento ormai fisso negli Stati Uniti. Sempre restando negli
States in alcune traccie si sente chiaramente l'influenza che la
vicinanza con Josh Homme ha avuto per i quattro di Sheffield nella
loro musica ( Snap Out
Of It ). Anche le
ballate presenti nel disco, No.1
Party Anthem e Mad
Sounds, sembrano in
qualche modo trattenute e incompiute, a dispetto dei precedenti
dischi dove aveva dimostrato di saperle maneggiare molto meglio.
Un
disco che non farà gridare allo scandalo, perché comunque si lascia
ascoltare senza alcuna pretesa, ma visto che la band era chiamata al
definitivo salto di qualità lascerà un po' perplessi in molti. Un
disco che di sicuro spaccherà in due sia la critica sia i fans, ma
la speranza è che magari è solo un passaggio per trovare la via
giusta e far esplodere finalmente tutto il potenziale di cui la band
è accreditata da anni.
Tracklist
:
1. Do I Wanna
Know?
2. R U Mine?
3. One For The Road
4. Arabella
5. I Want It All
6. No. 1 Party Anthem
7. Mad Sounds
8. Fireside -
9. Why’d You Only Call Me When You’re High?
10. Snap Out Of It
11. Knee Socks
12. I Wanna Be Yours
2. R U Mine?
3. One For The Road
4. Arabella
5. I Want It All
6. No. 1 Party Anthem
7. Mad Sounds
8. Fireside -
9. Why’d You Only Call Me When You’re High?
10. Snap Out Of It
11. Knee Socks
12. I Wanna Be Yours